Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

L’equivoco della libertà in Verga e la rilettura di Leonardo Sciascia

Le aspettative risorgimentali nel meridione furono comprese e interpretate in modo errato o sortirono effetti negativi in un contesto tagliato fuori dall’economia e dalla politica dominanti nel resto dell’Italia. Verga si fa interprete in vari passi delle sue opere delle conseguenze di un evento epocale che non ebbe i risultati auspicati. Nella novella “Libertà”, ad esempio, emerge un equivoco di fondo che fa capire al lettore moderno il punto di vista delle plebi meridionali vessate e affamate da secoli di sopraffazione e pertanto impreparate a accogliere un cambiamento di tale portata.

In un assolato girono di luglio una turba impazzita di braccianti armati di asce, falci, bastoni o semplicemente di una furia smisurata che fa diventare armi le loro mani, irrompe nelle stradine di un paese siciliano pronta a compiere un eccidio spaventoso al grido della parola libertà, dopo aver issato un fazzoletto tricolore sul campanile. La scena sembra quella di una ripresa cinematografica di un campo lungo che a poco a poco si restringe e rivela i dettagli di una carneficina efferata. Il lettore è proiettato in medias res, nel pieno dello svolgimento della scena. Inizia così “Libertà” appartenente alla raccolta “Novelle rusticane” pubblicate nel  1883. Nel rispetto della tecnica narrativa dell’impersonalità e senza la lente dell’autore che giudica e commenta le vicende, rimanda ad un fatto realmente accaduto di cui però non sono riferiti nomi e luoghi. Le scene descritte cui Verga allude riguardano la rivolta di Bronte in provincia di Catania dell’agosto 1860 e risulta evidente che l’autore ne conoscesse le dinamiche e gli atti del successivo processo svoltosi a Catania.

Le motivazioni di fondo che portano alla rivolta non sono espresse dal del narratore popolare interno alla vicenda, ma essa si dipana sotto gli occhi del lettore che apprende i fatti solo da ciò che gli si prospetta davanti. La furia devastatrice è rivolta ai maggiorenti e i borghesi del paese, galantuomini e cappelli , che avevano sempre sfruttato il lavoro dei braccianti prosperando con la loro fatica. La scena è descritta nella sua tragicità, emerge la ferocia con cui i braccianti imbestialiti si accaniscono contro chi li perseguitava con fame e frustate, contro la corruzione dei preti, contro la nobiltà parassitaria. Si evince dalla vicenda che viene equivocato il significato della parola libertà che per i contadini si identifica con la logica del possesso della “roba”, motivo dominante della poetica verghiana. Le plebi siciliane non potevano avvertire l’importanza dell’evento dell’unificazione, l’unico aspetto che avevano recepito era la possibilità di una riforma fondiaria, ventilata da tempo, che nella loro ottica si traduceva in un pezzo di terra proprio da coltivare autonomamente. Questo fu il motivo principale, ma non certo l’unico, per cui fu perpetrata la carneficina, definita un carnevale furibondo. La mattina successiva alla strage si impossessa dell’animo dei rivoltosi un senso di inquietudine e di inadeguatezza, interrogativi insolubili si affacciano improvvisamente alla loro mente. Chi avrebbe organizzato il lavoro senza i campieri? Chi avrebbe officiato la messa senza il parroco? Quali sarebbero state le conseguenze degli omicidi perpetrati? A sedare la rivolta giunse “il generale”,  descritto “piccino piccino nel suo grande cavallo nero”, e i soldati garibaldini  “giovinetti stanchi, curvi sotto i fucili arrugginiti”: Verga adotta un punto di vista antieroico nella rappresentazione di questi personaggi non certo connotati da un’epopea trionfalistica. Nella realtà storica il generale è Nino Bixio, che fece una giustizia sommaria e illegale prima che i colpevoli fossero tradotti  in carcere e sottoposti al processo. Verga compie quindi una rilettura degli eventi storici dal punto di vista di un conservatore, ma soprattutto consapevole del fatto che l’immobilismo domini la storia. Il gattopardismo ante litteram di Tomasi di Lampedusa risulta evidente e rimanda alla posizione di De Roberto nei Vicerè e a quella di Pirandello ne “I vecchi e i giovani”. In una società dominata da secoli dalla legge della sopraffazione e dall’assoluta staticità, il progresso è visto negativamente e risulta impossibile da realizzare in un microcosmo dominato dal darwinismo sociale che quando è travolto dalla fiumana del progresso a cui non è preparato, lascia dietro a sé “i vinti”, incapaci di adattarsi ad una nuova realtà, qualunque essa sia. E, nella novella, i vinti sono rappresentati dai rivoltosi, che sono convinti di poter cambiare la loro situazione realizzando l’agognata “libertà” che ha appunto solo una connotazione legata alla sfera economica, non certo di natura politica. La tanto auspicata divisione delle terre demaniali sembrò assumere una maggiore concretezza con l’arrivo di Garibaldi che puntava a ottenere l’appoggio delle masse contadine contro i Borboni. La rivolta, nella realtà, durò alcuni mesi, ma poi sfociò nell’eccidio cui Verga si ispirò. Garibaldi temendo che l’esempio di Bronte agisse da propulsore e sobillasse altri villaggi alla sommossa, fece intervenire le sue truppe al comando di Nino Bixio, che, al suo arrivo, mise in atto una giustizia sommaria facendo fucilare alcune persone prese a caso tra cui “il nano” considerato un essere malvagio nell’ottica popolare. Verga in un certo qual modo giustifica l’operato di Bixio perché si era formato nel suo mito, in quello di Garibaldi, e dell’Unita d’Italia e omette molti episodi e personaggi importanti, dando una visione distorta, (per certi aspetti contraddittoria), dell’accaduto. Emerge pertanto un ritratto ambiguo del generale: da una parte l’uomo che, come un padre, mette a dormire i suoi soldati-figli dentro la chiesa, dall’altra colui che agisce come un crudele giustiziere. Verga, pur conoscendo benissimo le condizioni di sfruttamento in cui versavano le plebi meridionali,  da buon conservatore  vede in modo critico l’unificazione, visto che già nei Malavoglia ne aveva colto gli aspetti deludenti nella realtà siciliana. Nessun ideale, seppur giusto e nobile, avrebbe potuto cambiare la situazione siciliana tanto più per coloro che, spinti da un movente economico, volevano a tutti i costi ottenere delle condizioni di vita migliori. Ecco perché si rivela inutile la sedizione, vana la speranza di un cambiamento: la libertà non indica l’indipendenza dai Borboni né il passaggio all’unita d’Italia, ma solo il possesso che elimini un rapporto di servitù. Tra l’altro Verga, in veste di proprietario terriero, guarda con ostilità e timore anche la diffusione di idee socialiste che avrebbero potuto scatenare sollevazioni popolari. Ne è traccia il  fazzoletto tricolore, divenuto rosso in  un’altra edizione della novella, che sventola floscio nella calura estiva e assume pertanto un valore simbolico di inutilità. Dopo le fucilazioni, gli accusati furono interpellati dai giudici, “i galantuomini con gli occhiali ”che arrivavano dalla città, queruli per i disagi del viaggio. I rivoltosi, dopo estenuanti interrogatori, furono condotti in carcere in catene, a piedi,  seguiti dalle donne che, disperate, bivaccarono in città in attesa del lunedì, giorno deputato alle visite, ma poi si rassegnarono e tornarono al paese, mentre i loro mariti e figli, in attesa del processo, impallidivano in carcere.

Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace.

Molte donne addirittura dimenticarono i loro mariti, solo qualche madre e qualche anziano ogni tanto ricordava l’accaduto. La vita continuò seguendo la ciclicità di dinamiche secolari e abitudini ataviche, come se niente fosse successo: questa è dunque la dimostrazione dell’immobilismo sociale e dell’incapacità di cambiare le cose. Il processo durò tre anni  in cui “i giudici sonnecchiavano dietro le loro lenti, stanchi e annoiati, tirando un sospiro di sollievo per non essere stati galantuomini di quel paesello”. Gli imputati vennero condannati ma continuarono a non capire il motivo, dal loro punto di vista “avevano fatto la libertà” ma ciò non aveva apportato nessun miglioramento o vantaggio. Con una struttura circolare si chiude la novella all’insegna della parola libertà, fulcro su cui ruota la vicenda che termina con l’amara considerazione del carbonaio:

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…

Leonardo Sciascia dedica molti saggi a Verga, tra cui uno contenuto nella raccolta del  1970 pubblicata da Einaudi “La corda pazza”, intitolato proprio “Verga e la libertà”. Nel saggio Sciascia innanzitutto riporta dei passi in cui  è descritta la vita del lavoratori, come quello di La Bruyère che espone  lo stato quasi animalesco in cui versavano i braccianti che perdurò per secoli.

Si vedono certi animali selvaggi, maschi e femmine, in giro per le campagne, neri, lividi, nudi e bruciati dal sole, curvi su un terreno che rimuovono e scavano con una straordinaria ostinazione. […] Quando si drizzano mostrano un viso umano: che in effetti sono degli uomini, e a notte inoltrata si ritirano nelle loro tane dove vivono di pane nero, di acqua e di radici.”

Il decurionato di Bronte riteneva felici le condizioni descritte dal francese, ma la realtà era ben più drammatica. I braccianti agricoli lavoravano solo in occasione della semina, della zappatura e della trebbiatura e percepivano un salario miserevole spesso anticipato in legumi e in grano dai padroni. Nel resto dell’anno vivevano di espedienti, di raccolta di frutti, ghiande, funghi, capperi, rane, sia per sfamarsi che per la vendita. Paradossalmente la giustizia era applicata con severità su queste persone indigenti: pignoramenti per usure, accuse di furto di legname raccolto nei boschi demaniali, tasse non pagate sul macinato. Altro tasto dolente erano le libertà sessuali dei galantuomini sulle ragazze del popolo che riempivano la ruota dei conventi. Se un guardaboschi della duchessa di Bronte sorprendeva qualcuno a fare legna gli veniva inflitta una severa ammenda e non meno di un mese di carcere. La duchessa di Bronte viveva in Inghilterra e al suo posto in paese vivevano Guglielmo e Franco Thovez, divenuti notabili e amministratori di quel feudo che Ferdinando III di Borbone aveva donato all’ammiraglio Nelson. Furono loro a chiedere a Garibaldi di adottare un particolare rigore nella repressione della rivolta che Bixio in modo feroce applicò, ma un rifiuto avrebbe comportato un incidente diplomatico con gli Inglesi.  Uno studioso di Bronte, Benedetto Radice, in una monografia intitolata “Bixio a Bronte”, riesuma aspetti vergognosi della rivolta, spinto dall’umana compassione in particolar modo per un personaggio che Verga neppure cita, l’avvocato Lombardo, che fu tra i cinque fucilati ingiustamente all’arrivo di Bixio. Il Radice mostra la sua indignazione morale di fronte a questo e ad altri episodi ignominiosi e sottolinea che quando avvennero i fatti Verga aveva vent’anni e tempo dopo, durante la stesura della novella, conosceva con dovizia di particolari tutto l’accaduto. Nonostante ciò operò delle mistificazioni, per non chiamarle forme di omertà, per giustificare l’operato di Bixio. La prima consiste nella fucilazione del “nano”: come detto sopra, utilizza questa figura tacciandola di malizia e cattiveria per sminuirne la morte. In realtà non si trattava di un nano ma di un pazzo innocuo, colpevole solo di vagare per le strade del paese profetizzando sciagure per i galantuomini. La fucilazione di un essere umano infermo di mente fu un atto vergognoso senza contare che nel percorso verso il patibolo, il malcapitato implorava la protezione della Madonna e la pietà di Bixio che invece lo fece fucilare, dileggiandolo. Verga addirittura eliminò anche il barlume di processo sommario che sancì le cinque fucilazioni, con una frase sbrigativa “fece fucilare i primi che capitarono”. Altra mistificazione palese è l’aver eliminato dalla scena il sopraccitato avvocato Lombardo, giustiziato perché considerato rivoluzionario, ma fu un errore fatale di Bixio che accolse inique istanze addotte da nemici dell’uomo. Infatti egli era stato capo della fazione liberale catanese e capo del partito liberale a Bronte nonché “comunista”, (ovvero sostenitore del partito del comune, contrapposto ai “ducali” cioè sostenitori del partito del duca), ma non certo responsabile della rivolta e degli eccessi sanguinosi che la caratterizzarono. E’chiaro che Verga non l’abbia citato perché la vicenda gli turbava troppo la coscienza e avrebbe dissolto la coralità della novella, insomma sarebbe stato uno scheletro nell’armadio troppo difficile da riesumare e giustificare. Oltre alle ricostruzioni del Radice, Sciascia nel suo saggio cita un altro personaggio, l’avvocato difensore degli imputati, Michele Tenerelli Contessa, di cui riporta una parte dell’ appassionata arringa. Punto centrale è l’adesione degli insorti al “proclama di Marsala” che incitava alla rivolta contro i Borboni e alla rivendicazione dei diritti del popolo, dei suoi bisogni reali, che ovviamente furono platealmente ignorati. Tale discorso non convinse però i giudici che, a detta di Verga “sonnecchiavano dietro le lenti”.  I venticinque imputati ebbero l’ergastolo, uno vent’anni di lavori forzati e gli altri dieci e cinque anni di reclusione. E come conclude Sciascia, le parole del Contessa non incontrarono evidentemente neppure il favore di Verga.

Senza negare l’innegabile valore artistico della scrittura di Verga e la dovuta ammirazione che il lettore prova per questo straordinario autore, fa specie che egli non abbia provato compassione per questi “vinti”anziché farli apparire solo come una mera jacquerie. I fatti di Bronte hanno radici storiche molto complesse che oltre all’annoso problema delle terre demaniali annoverano anche quello della “ducea Nelson”, ma sono altresì una palese dimostrazione del trasformismo repentino delle classi dirigenti siciliane che si adattarono alla nuova situazione politica dopo l’unificazione pur di mantenere potere e privilegi, mentre Bixio si portò sulla coscienza le esecuzioni di Bronte in particolar modo quella dell’innocente avvocato Lombardo. I braccianti invece privati di ogni diritto e delle terre,  furono ridotti  ad essere considerati solo bestiali assassini pronti a riempire le celle del nuovo stato lasciando i loro parenti a un destino di fame e miseria e l’illusione di una terra promessa mai ottenuta, in nome della quale avevano tentato inutilmente di emanciparsi. Resta inoltre aperto un altro dibattito che emerge prepotentemente, cioè se la posizione di Verga sia reazionaria  o progressista.