Vivo a Catania, sono pediatra. Ho scritto molti racconti pubblicati in antologie. Uno in particolare, Il violinista, è in fase di stampa Così come una raccolta di miei racconti(19) è in fase di imminente pubblicazione. Sono arrivato finalista al concorso internazionale di poesia il Federiciano, con la poesia La spiaggetta.

La  bottega

Di Flavio Prestifilippo

Quella mattina la festa era iniziata molto presto.  Ascoltavo le  grida festose,  gli schiamazzi dei  bimbi e le grida  degli  ambulanti. Ma non rimasi fermo  lì, lentamente fui portato in una via secondaria, dove c’era un cortile col pavimento di   pietre  bianche.                                                                                                              

La grande porta era  spalancata, dentro era tutto in penombra, fuori invece  c’erano  piccole e panciute   botti   di legno chiaro, con tanto di rubinetto invitante, quasi a promettere libagioni all’aperto proprio in quel giorno.      

 Appese al muro all’esterno  c’erano varie  falci nuove e lucenti,  quelle che un tempo usavano i contadini per lavorare nei campi. Alcune vanghe erano lì ammiccanti, col loro sorriso sfavillante  carico di antiche promesse: sole, sudore, fatica, sere fatte di nulla, ma anche  rarefatti  paesaggi  da ammirare sotto un albero con un po’ di pane in mano.  Qualcuno mi spinse dentro e  io docile ubbidii.   

  Mi colpì subito un fortissimo odore di colla da falegname,  mischiato con quello di cordame che intravidi su una piccola parete. Corde di tutti i tipi,  nuove , appena costituite forse. Al centro della stanza un grande bancone da lavoro con miriadi di scatolette: chiodi di tutte le fogge, ma anche viti bulloni, martelli e  mazze erano appesi ai lati.                                                                                                                                           

Quello che troneggiava come un piccolo re della bottega era però lui, il piccone, minaccioso lineare come solo i grandi riescono ad essere. Accanto a lui gli faceva da contraltare l’ascia. Ma non era sola, le erano accanto come paggi  seghe varie  di tutte le forme e grandezze, fino a quella   regina, usata   per tagliare i tronchi,  posta  accanto al piccone.      

  Poi c’erano i soldati, svariati tipi di martelletti , piccoli picconi,  scalpelli, e mazzuoli, tutti  pronti a scattare all’unisono al richiamo dei sovrani. In un angolo messa da parte come antenata antica, vidi una carriola  lucente, pesante, quasi lacerante nella sua promessa di  stanchezza.  Alcuni sacchi di contenuto vario stavano come a contorno del tavolo centrale. Intravidi in essi tante sementi, ma anche  una polvere grigia, cemento mi fu detto.   

In un angolo come damigelle c’erano le pale cosiddette, che da una parte all’altra facevano da piccolo corteo ad una scaletta, da cui  all’improvviso scese un uomo.                                                                         Era curvo, alto,  magro, con un grembiule grigiastro, la barba bianca corta e fitta. Parlava con voce roca ma intonata all’ambiente di duro lavoro che lo circondava. Sorrideva guardandomi. Poi si affacciò verso l’interno  urlando un nome.    

Dopo un poco venne fuori, come da uno specchio magico,  una donna con un grande grembiule a fiori. Sotto aveva una gonna rosso sangue. Era paffuta, con la pelle bianchissima  e un sorriso invitante:   

   “ Venite, il pranzo è pronto”. Richiamo  inutile,  perché  dalla profondità della scala  provenivano    miscugli   di odori su cui prevaleva quello di passata di pomodoro .                                                      “Venite,”, ripeté, “ è pronto”. Poi si rivolse   nella mia direzione, guardando però più  in alto:                    

“ Dobbiamo parlare, lo sai.“  Una mano forte mi tirò, e cominciai a salire gli scalini.    

Salimmo tutti come in piccola processione,  attraversando quella porta poco in vista.  Alla fine della scaletta c’era un lungo corridoio, col pavimento in strani mattoni giallastri puntinati di nero.  Sulla tavola apparecchiata,  più invitante che mai,   c’era  l’immancabile bottiglia  di vino rosso.  Ci sedemmo tutti,   a me  fu assegnato un posto   vicino alle mie cugine, due bambine grassottelle che ridevano guardandomi.                   

 Fui servito per primo. Il pranzo fu allegro, mi fecero gustare anche   del  vino seppur annacquato.  Infine cannoli di ricotta nostrana  e caffè per i grandi. Le bambine mi invitarono subito  ad andare a giocare con loro, anzi la più intraprendente mi trascinava tirandomi per la giacchetta nuova che avevo indossato quel giorno,  festa del Santo Patrono.   Il padrone di casa la  bloccò: “deve restare con noi”.  Mio padre e il cugino iniziarono così a parlare , guardandomi ogni tanto per accertarsi che seguissi   tutto.   

  “La frana è stata tremenda, ha distrutto una parte della casa, siamo vivi per miracolo. Era una domenica di pioggia, ma  noi  per fortuna  eravamo tutti  nella  parte  più esterna del palazzo , altrimenti ci avrebbe  travolti” .  Era stato mio padre a parlare. Vidi chiaramente che un brivido lo percorse ,  poi si  consolò  con un altro  sorso di vino.   “ Si è vero! “ intervenni   io,  “avevo chiesto infatti  a mia sorella di andare a giocare proprio  dove  è crollato tutto. Ma lei ha detto no,  e dopo  qualche minuto un grande  boato ha fatto tremare la casa!”       

 I due cugini si guardarono sospirando e scuotendo la testa  “Lo so” Disse lo zio Ignazio. “Ora verrete a stare con noi per il tempo necessario per i lavori. Poi ci vorrà il permesso di agibilità. Spero che tu  Saverio   ti possa  trovare    bene qui”.   “ La mamma e mia sorella  verranno ?” Chiesi  io con un filo di voce.                                                                               “Loro  staranno da  tua nonna, non potevamo ospitarvi tutti. Ma le vedrai spesso. Però a scuola ci andrai sempre e i compiti dovrai farli, mi raccomando. Certo farai nuove  amicizie, qui attorno ci sono tanti monelli: dovrai   stare  attento. “    Così mi  disse lo zio  accarezzandomi  i capelli.              

Un brivido interiore frammisto a curiosità  si stava impossessando  di me.   Dopo  pochi giorni  feci conoscenza coi miei nuovi compagni di gioco. Mi chiesero subito come mi chiamassi e che giochi sapessi fare.  Feci il mio elenco: “ciappedde,  so andare in  bici”  e, più incerto, “gioco  al  calcio”.  Loro risero  scambiandosi occhiate d’intesa.  Per impressionarli aggiunsi: “So usare  la fionda e sparo col fucile!”    

 “Quello vero?”. Vedendo che esitavo  se ne andarono correndo e gridando.  Nella settimane successive li cercai dovunque, senza trovarli..  Avranno un posto segreto  dove si riuniscono, pensai subito.   I giorni passavano, i miei giochi erano sempre  solitari, tranne quando venivano mia madre e mia sorella. Se  ero libero da impegni stavo in bottega con lo zio e ne seguivo i lavori di falegnameria, oppure lo ascoltavo  parlare coi clienti venuti a fare acquisti o a commissionargli qualche opera.   La strada per andare a scuola   era molto  più lunga di prima , dovevo quindi  alzarmi presto, tanto che un giorno mi capitò di osservare  il nostro  vicino che andava in campagna a dorso di mulo. 

Aveva dei grandi baffoni e un’imponente figura. Era anziano ma continuava imperterrito  a svegliarsi all’alba per andare a controllare le coltivazioni nelle sue terre.   Questa figura mi affascinò subito,  tanto che cercavo di scrutarlo  sempre  più spesso,  a costo di levatacce. Lui infine se ne accorse, ma non  disse nulla, almeno per il momento.   Un giorno venne a casa nostra  cercando di  mio padre, per fargli una proposta:   “ Vorrei portare suo figlio una domenica pomeriggio nella mia campagna. “    “A dorso di mulo?” Chiese pronto mio papà,  un poco preoccupato .             

    “No, che dice” rispose il vecchio facendosi una grossa risata. “ Tiro fuori il carretto naturalmente, e  ci sarà anche il cane. “ Ebbi così il consenso.  Iniziò una lunga attesa, prima che giungesse quella    domenica.     Nel frattempo cominciai a fare tutta una serie di domande a mio zio Ignazio, per saperne di più sul conto del  vicino.  

  “E’ un vedevo” mi rispose  “si chiama Gaetano.” Ha perso la moglie anni fa. Ha due figli, la primogenita è sposata  ma abita in un altro paese, la vede infatti solo nelle grandi feste. Il maschio è militare e ne avrà ancora per  due anni.  In gioventù è  stato sottufficiale dei carabinieri” .  Si fermò un attimo come  a chiedere il permesso a mio padre che gli sorrise  in  risposta.   “E’ stato in carcere per tre mesi”. Mi guardò divertito godendosi il mio legittimo stupore.  “Un carabiniere?” Chiesi io.           

” Si caro, fu recluso per tre mesi. Il motivo è semplice: un giorno, all’epoca del fascismo,  insultò nella pubblica piazza  nientemeno che Benito Mussolini. Ancora se ne vanta, e  a ragione secondo me.  Prima che lo radiassero  dall’arma  si dimise lui sbattendo la porta. “  “Un bel   personaggio e un carattere bellicoso “ aggiunse mio padre con gli occhi che gli brillavano Mi raccomandarono di non chiedergli  nulla in merito a quell’antico episodio. Promisi che non l’avrei mai fatto.        

 Ma una muta domanda mi restò in mente per parecchio tempo: perché il vecchio si era comportato  così?    La risposta  mi  sarebbe  arrivata spontaneamente  solo  in seguito.   La domenica designata   mi  ritrovai  sul carretto nuovo  con le immancabili sponde tutte  dipinte.    Prima della partenza mio zio volle farmi una foto, che poi  avrei  rinvenuto molto tempo dopo  in occasione di un trasloco.     

  La Primavera era  già inoltrata,  durante il viaggio Gaetano  non  parlava. Anche il cane era silenzioso  e ci trotterellava dietro.  Dopo un po’ il vecchio  iniziò a  cantare una nenia  a bassa voce: le  parole  erano  incomprensibili,  ma   il     tepore   di un maggio pietoso, interrotto solo dagli zoccoli del mulo e dal cigolare delle ruote,   mi regalarono  una contentezza e una pace   non    più   ritrovata finora.   Le ore passarono,  poi quando il contadino ebbe finito il suo lavoro,  riprendemmo subito la strada del ritorno.  Stavolta  cantai   anch’io,  imitando  la lenta melodia  ritmata dai rumori del carro.    

La scuola a giugno infine  chiuse i battenti. Si ripresentò così il problema  di scovare i miei compagni di gioco.  Per fortuna non ce ne fu bisogno:  il caso me li fece incontrare.  Stavolta mi accolsero meglio, forse, pensai,  l’amicizia col vecchio contadino era servita a rivalutarmi ai loro occhi.          

Non mancavano certo i momenti in cui rimanevo solo a bighellonare, esplorando tutti gli anfratti di quel quartiere a me sconosciuto. Giocavo pure col cane del vicino, dopo che ebbi superato  la mia innata  paura.     

Una sera accadde un fatto strano, il capo della piccola banda si avvicinò a me con aria cordiale.    “Ti piacciono le calamite?” mi chiese  con aria invitante.  La voglia di possederne una prese il sopravvento sulla diffidenza istintiva che mi facevano quei ragazzini.       

“Si” risposi senza pensarci . “Bene allora” Fece lui. Conosciamo un posto dove ne potrai trovare tante, se verrai con noi domani sera. Non devi parlarne con nessuno  mi raccomando , altrimenti la paghi  ”concluse con voce minacciosa.   Ci  demmo  un appuntamento per l’indomani sera. Quella notte  per l’inquietudine dormii male.     

Nella penombra del tramonto ci ritrovammo l’indomani   tutti attorno al capo,  di fronte a noi c’era  una vecchia bottega,   protetta da una porta sgangherata in lamiera e da  una vecchia serratura.  Mi chiesi come saremmo entrati .  Sopra la porta vidi poi   una fessura dove a stento sarei passato io, non senza  difficoltà. Tutti mi guardarono: ero infatti il più piccolo e il più magro.   Ecco perché mi avevano portato con me, pensai, ma ormai non avevo  scampo. Mi issarono senza problemi, e  il resto lo feci io con relativa   facilità. Aprii  la porta mentre loro  spingevano   dall’esterno, quindi entrarono tutti.     

   In pochi minuti facemmo  man bassa di tutto la ferraglia trasportabile. Chiudemmo alla meglio,  e a fatica per via del nostro carico,  ci recammo   in un’altra bottega, un  fabbro venni a sapere   dopo.    Costui  pesò  tutto quanto con pignoleria,  poi lo vidi  parlottare  con uno di noi.   Scappammo poi  di corsa,  prima di separarci però  il capo   mi fermò:  non potevo proseguire  con loro.  Mi mise in mano qualche moneta  raccomandandomi il silenzio, poi  mi salutò.   Non l’avrei mai più  rivisto.                                                                                                                  

Dopo qualche giorno  i miei genitori anticiparono il ritorno a casa nostra,  pur essendo ancora   i lavori   non  del tutto ultimati.                                                                                                                    Da alcuni loro commenti ascoltati di nascosto, intuii  ciò che avevo fatto in realtà.      

Ricordo ancora oggi   quella bottega  e i suo odori  particolari,  insieme a quella porta  nascosta, da cui un giorno poi  sono uscito,  abbandonando  per sempre quel mondo semplice e antico.    

L’immagine di copertina è La Vucciria di Renato Guttuso