Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

La spinta vitale de ‘Il bambino che sognava’

Di Rossella Pretto

Quanto è forte il dominio dell’immaginazione? E quanto può prendere il sopravvento sulla realtà?

Può ingrandirsi fino a inglobare tutto, fino a morirne, per poi rifiorire al sopraggiungere della primavera, che tutto rischiara e tutto profuma, sbocciando nel cuore di un altro, di una madre che forse madre non è, ma che infine accoglie il dono del sogno. Ed è il regalo di un amore che riempie di senso una vita fatta di obblighi e di buona condotta.

Splendido, davvero splendido questo racconto contenuto nei Racconti d’inverno della Blixen, perché ci invita a riflettere su quanto la fantasia possa illuminare il mondo, anche quello funestato dal dolore, dal lutto. Serve una buona dose di coraggio per affrontare gli eventi dalla prospettiva dell’invenzione. Lo è? È invenzione quello che transita sotto forma di fantasticheria nella mente di un bambino o di un adulto? O è slancio, spinta a che l’evento accada? Premonizione, forse. A volte. Eppure bisogna viverlo appieno ed è rischioso, si rischia di passare per folli, spesso. Ma le crepe e le dissonanze fermano il tempo, modificano lo spazio. E manifestano l’oscuro e trascurato volto della verità delle cose. Chi siamo? Siamo ciò che pensiamo, che sogniamo. Siamo ciò che abbiamo l’ardire di avverare.

Ecco perché Emilie, la madre non madre di cui sopra, confessa anche ciò che non dovrebbe, e che non sappiamo se sia vero, nel senso appena detto. Lo fa per creare spazio, perché ha imparato a farlo, ha imparato che sogno e parola suggono dallo stesso fiore. E che il suo compito è di impollinarne un altro, facendosi ponte dell’informazione e della vita che si rinnova. Così fa Karen Blixen: viene investita dalla vita e si lascia traversare, mettendola in parola, immagine, facendone racconto che trasmetta l’intimità dell’anima sognante che non si accontenta dell’ordinario, ma che ha il dono del travestimento, il gusto del costume e della beffa.

Ne ‘Il bambino che sognava’, Blixen racconta di Jens, una creatura strana. Abbandonato fin da piccolo, cresce in una casa modesta, in miseria, concedendosi, grazie ai racconti di una sarta, di penetrare e farsi penetrare dalle fantasie. Vi si installa dentro finché una coppia di borghesi benestanti lo accolgono nella loro casa. In Emilie, il piccolo ed esuberante Jens riconosce la sua mamma. Lei ne è spaventata. Eppure tutti ne rimangono incantati. Il suo modo di fare, la padronanza assoluta con cui sembra affrontare la nuova condizione, che per lui nuova non è, sbalordiscono e affascinano gli altri membri della famiglia: «Lui non era né un gaudente né un lottatore. Era un Poeta». Sapeva riconoscere il suo destino e sapeva di appartenere a quella casa. Ma il piccolo si spegne in fretta, affonda presto nelle radici nere dell’inverno. «Ci sono dei giovani alberelli che quando vengono piantati hanno radici esili e contorte, e non riusciranno mai ad attecchire» dice la Blixen «Possono buttar fuori una profusione di foglie e di gemme, ma sono destinati a morir presto. Così era per Jens. Aveva proteso i suoi piccoli rami verso l’alto e sui lati, si era ottimamente nutrito del piatto del camaleonte, mangiando l’aria infarcita di promesse, e intanto aveva dimenticato di mettere le radici. E adesso era giunto il momento in cui, per legge di natura, la vivida, rigogliosa messe di fiori doveva inevitabilmente appassire, disseccarsi e andar perduta».

Quel che a prima vista pare un lutto, per tutti tranne che per Emilie, si trasforma nella spinta che travolge proprio lei e la fa decidere al grande passo, il più folle, quello che la apparenta alla scrittrice. Confessare l’amore per Charlie, l’uomo che morì prima che lei sposasse Jakob, e credere che Jens fosse il figlio del loro amore clandestino o continuare a vivere nella menzogna? Confessarlo o morirvi dentro? Emilie sceglie la prima via. Che sia vera o no poco importa, conta il potere eversivo e travolgente del desiderio che spinge una donna, una scrittrice o tutti noi, a credere in ciò che squassando s’inverdisce fino a diventare bosco, foresta e luce. Che tutto confonde ma, alla fine, tutto chiarisce e profuma.

«C’è una grazia, nel mondo, di cui non sappiamo niente. Il mondo non è un luogo spietato e crudele, come dice la gente. Non è nemmeno giusto. Tutto ti è perdonato. Non si possono offendere le cose belle del mondo, né ferirle; sono troppo forti».

Poter vedere tutto ciò che si immagina, vederlo e poterlo dire! Ecco qualcosa per cui vale la pena vivere. Ecco qualcosa per cui dare la vita in cambio! Sappiamo bene che la Blixen non era nuova a questi patti…