Gianrico Gualtieri è nato a Napoli il 10 febbraio 1962. Dopo aver conseguito la maturità artistica (1979), ha frequentato la Facoltà di Architettura e l'Accademia di Belle Arti. A partire dagli anni '80 avvia una ricerca artistica sulle tecniche della pittura antica, formandosi dapprima alla scuola del '600 italiano e in seguito, alle scuole fiamminga e olandese. Esegue numerose copie e lavori personali, con una predilezione per i generi della natura morta e del paesaggio.

Fare come vuoto

I. Guido Reni: il fare come vuoto

Alcuni grandi maestri della pittura occidentale sono giunti ad esprimere in pittura il concetto di vuoto: Guido Reni, al termine di una lunga meditazione sulla classicità e sulla forma, giungerà ad una sorta di lirico sfinimento. L’artista non si basa soltanto sull’osservazione della realtà visibile, ma incrocia i dati di tale osservazione con quelli di uno schema ideale che riassume la sua visione estetico-simbolica ; parlando di un angelo da lui dipinto, Reni dirà “ho riguardato in quella forma, che nell’idea mi ero stabilita”. Di tale immagine interiore l’immagine dipinta è insieme veicolo e limite: le prime fasi della pittura la lasciano quasi indovinare e intuire più che una pittura rifinita dal processo iterato e completo. Il non-finito, categoria alchemica già patrimonio di Michelangelo, conosce qui una nuova declinazione divinatoria.

 È il “fare” come vuoto: sono temi spesso severi, Lucrezie, Cristi flagellati, o dolcemente malinconici, come la Fanciulla con corona di questa immagine; il ductus diviene rarefatto, la pittura è eseguita direttamente sulla tela non preparata, tutto, dalla composizione alla stessa conduzione tecnica, lascia intravedere che “la forma è vuota”.

Non a caso la critica ha parlato di “Nirvana sensoriale” riferendosi a quest’ultima produzione. Questi alti raggiungimenti dell’ultima attività di Reni corrispondono al vuoto come esteriore e dunque alla Vanitas, e insieme al fare come realizzante il vuoto, come nell’episodio del macellaio che pratica il Tao, giunto a tagliare col suo coltello il minimo indispensabile.

La “Fanciulla con corona”:

II. Caravaggio: il vuoto come memoria e meditazione interiore

Già dalle prime opere pubbliche, e ancora prima, nelle opere moralizzanti del periodo giovanile (Ragazzo morso da un ramarro, i Bari, Concerto amoroso) Caravaggio aveva mostrato, oltre all’importanza dell’immagine come oggetto di meditazione, il suo inserirsi nel solco della tradizione lombarda, e non solo dal punto di vista delle ricerche e sperimentazioni leonardesche, ma anche e soprattutto nel senso di una ricerca di verità “ottica” dell’immagine come verità morale, come raggiungimento interiore (sono noti i contatti del Merisi con gli ambienti spirituali legati a S. Carlo Borromeo). Premesse che giungono alle loro più estreme conseguenze nelle opere tarde del periodo siciliano. Nel Martirio di S. Matteo, facente parte della sua prima commissione pubblica, Caravaggio aveva mostrato, soprattutto negli sfondi e nei dettagli in secondo piano, certi sintetismi, certe abbraviazioni, ma tutta la composizione sembrava dominata da moti vorticosi, nello sforzo di uscire dagli schemi manieristi. Nel “Seppellimento di Santa Lucia”, tutto si è fatto raccoglimento, meditazione e silenzio intorno al corpo esanime della Santa.

Il dipinto è ambientato in un grande spazio vuoto nel quale i personaggi sono come rivelati da pochi accenti luminosi e tendono ad essere riassorbiti dall’ombra del fondo. La pittura ha, cioè, rinunciato a cercare all’esterno, in una cifra stilistica o in stilemi descrittivi, la comprensione profonda della realtà, ma può trovarla soltanto nelle profondità del dramma che è l’uomo, nella sua interiorità. L’immagine diviene allora uno spazio profondo, e profondamente interiore, di meditazione. Presenza come assenza e come ricordo, l’immagine assume i connotati del ricordo di un vuoto interiore, come avviene nel Memento mori. Una memoria che, nel caso del Merisi, è anche tragicamente e autobiograficamente dolorosa, e per questo forse ancor più universale.

Il seppellimento di S. Lucia:


III. Ribera: la forma come equilibrio tra fare e interiorità

Come lui stesso dirà, Ribera si pone come obiettivo il raggiungimento di un equilibrio tra la grande tradizione classica italiana, basata sul disegno e poi sulla “maniera”, e le novità caravaggesche di naturalismo, di drammaticità dell’immagine e di “verosimiglianza”. In Ribera la forma-pittura è determinante: essa non si nega, non vuol disfarsi nel fare o nell’interiorità, ma viene perseguita nel sostanziarsi materiale/materico, nel suo esser substrato, residuo di processi più elevati: è concepita come un caput mortuum. In questo senso il lavoro di Ribera, col portare fino alle sue estreme conseguenze il senso di un fare pittorico “sostanziato” e “sostanziante”, si svela come il trait d’union tra la concezione reniana e quella caravaggesca della pittura. Nel S. Gerolamo, dipinto insieme al S. Sebastiano poco prima di morire, nel 1652, proprio l’unicità della sostanza e la sua capacità di divenire di volta in volta pelle raggrinzita, libro, legno, drappo, infine lo stesso spazio profondo della spelonca, costituisce il dato principale evidenziato e perseguito da Ribera: l’immagine è un’ipseità che punta alla ricostruzione dell’evidenza fenomenica delle sue molteplici componenti, sottolineandone la comune “materialità”. L’immagine, e insieme ad essa tutte le cose, non sono che caput mortuum.