Daniela Ginex vive e lavora a Catania. Ha collaborato con la rivista Paidòs, dove ha tenuto una rubrica umoristica. Ha pubblicato con Algra dei racconti in antologia (L’arte di perdere, Albe, Zenith, Ci rifaremo vivi, All’imbrunire, L’inseguimento) e il romanzo Divagazioni amorose.

COGNATE IN VISITA

Di Daniela Ginex

– Ora che tu sei in queste condizioni ti aiutiamo noi! Non devi fare niente, non ti devi stancare.

– Non ti devi stancare, non ti devi stancare.

A intervalli più o meno regolari, Cettina ripeteva le parole della sorella Meluccia, ma questa circostanza, più che sminuire il valore delle sue affermazioni, contribuiva ad amplificarne l’apoditticità e se necessario a rendere ineluttabili le conseguenze del dettato normativo in esse contenute.

Quella che “non si doveva stancare” era Lina, la padrona di casa, che in quella calda mattina di luglio riceveva le cognate, come ormai andava avvenendo quasi quotidianamente. Assisa al centro del divano del salotto, le gambe divaricate a permettere una più agevole collocazione della voluminosa pancia, sosteneva imbarazzata gli sguardi insistenti delle due donne. Tutte e tre si sventagliavano con energia e inconsapevolmente andavano sincronizzando il movimento. Dal corridoio il fastidioso rumore dell’aspirapolvere, azionato dalla domestica Barbara.

– Volete che accendo il ventilatore?

– No! Per carità e se poi ti fa male, niente ci fa, apriamo la finestra.

La finestra, la finestra.

Che era una concessione già molto audace per le due sorelle, che paventavano la corrente come il peggior nemico della salute.

– Ah, senti, vedi che la zia Finella sta finendo la copertina per Agatino. È tutta ecru con il merletto azzurro, e poi ci sta facendo delle roselline gialle, è proprio finicchia.

Lina trasalì, e il motivo del suo sbigottimento non era nemmeno il colore dei decori della suddetta coperta. Era stato pronunciato un nome che credeva di essere libera di non imporre al suo amato primogenito, il nascituro. Avevano affrontato il problema con Mimmo, e le era sembrato che lui le permettesse di scegliere un nome moderno, non quello portato dalla famiglia Mancuso per intere generazioni: tanti Agatino Mancuso che per distinguersi nella storia avrebbero avuto bisogno del numero, come i re. Ma se le cognate dicevano così vuol dire che ne avevano parlato con lui. Che avevano ridiscusso la faccenda, che il suocero esigeva che il suo nome venisse trasmesso all’erede, che non c’era scampo. Osò timidamente contraddirle.

– Agatino? Ma no, noi ne abbiamo parlato, io e Mimmo… avevamo pensato di metterci un nome più moderno…

E nemmeno quello che aveva preso in considerazione in un primo tempo, e cioè Anthony. Con Mimmo avevano stabilito che andava bene Roberto, o al limite Andrea. Lui era stato buono, aveva sorriso e le aveva detto che poteva scegliere il nome che voleva.

– Perché, Agatino che è antico? Il nome della nostra santuzza!

Perché l’aspirapolvere si era fermato? Sempre a intrigarsi quella pettegola. Lina la chiamò a gran voce, e le ordinò di portare il latte di mandorla.

– Vedi che c’è quello ghiacciato in fondo al frigorifero, non prendere quello davanti, e attenta con i bicchieri!

A dispetto della fermezza che Lina aveva cercato di imporre alla sua voce, un leggero tremito ne aveva inficiato l’autorità. Sentiva un calore salirle su per il collo, inondarle il viso e fermarsi sulla fronte, che da lì a poco avrebbe assunto l’aspetto rorido dell’estate siciliana, e quella finestra che nessuno alla fine aveva aperto non migliorava le cose. La sera avrebbe parlato con Mimmo, ma se lo sentiva che la sentenza era già emessa.

– Lo sai chi ha partorito?, la signora Amaraddio poverina.

– Poverina, poverina!

Meluccia, seduta sull’estremità della sedia perché la poltrona le faceva venire il mal di schiena, raccontò compunta di un travaglio durato tre, quattro, o forse anche cinque giorni e un parto che neanche Dario Argento avrebbe saputo descrivere con dettagli così gore.

– Pensa che si è lacerata fino a dietro, hanno dovuto ricucirla, non so quanti punti ci hanno dato, e poveretta ancora dal letto non si può alzare…

Barbara, che era entrata con passo felpato, reso ancora più felpato da certe informi ciabatte unico conforto ad estremità costantemente afflitte da calli duroni occhi di pernice e quanto di peggio si possa immaginare per i piedi, si provò a versare il latte di mandorla nei bicchieri, ma fu bruscamente interrotta da Lina, che cercò di rimandarla al più presto nelle aree domestiche di sua competenza.…

che poi il bambino aveva il cordone intorciniato attorno al collo, per questo ci ha messo tanto a nascere, ed è nato tutto nero nero, che nemmeno respirava, e stava morendo dicono, che poi mi ha detto la dottoressa Cullurà che questo fatto che non ha avuto l’ossigeno nel cervello chi lo sa, magari gli viene pure scemo, povera signora Amaraddio…

La volontà del Signore!

Cettina pronunciò queste parole levando gli occhi al cielo e accompagnando il gesto con le mani alzate. L’autonomia critica mostrata nell’intervento colpì la sorella Meluccia, che si voltò verso di lei. Nessuna delle due si era accorta che Lina era impallidita e aveva appoggiato il suo bicchiere sul tavolino di radica, facendo inavvertitamente traboccare da esso qualche goccia del profumato nettare. Lina chiamò Barbara, che portasse uno straccio umido.

Biii, il tavolino della nonna Pina! Ora chi lo sente a Mimmo, quello ci tiene tanto…

Meluccia assistette severa all’operazione di pulizia della serva, trattenendo a fatica l’indignazione. Quando quella si fu allontanata, non riuscì a non sbottare.

– Ma come la passa la pezza quella? Hai visto? Manco l’ha strizzata, ci ha lasciato tutte le strisciate! E certo che così le cose non durano. Mah! Meglio che una se le fa da sola, queste cameriere sono buone solo per rubare i soldi… noi a casa nostra preferiamo non fare entrare nessun estraneo, vero Cettina?

Cettina fu così gratificata della richiesta di intervento che per un istante pensò pure di dire la sua, ma lo sguardo severo della sorella la indirizzò verso la strada giusta, e cioè quella di approvare annuendo.

– Ma no, Barbara la conosciamo da tanti anni, lavorava da mia zia… è una di fiducia, non…

Lina non riuscì a terminare la frase: le parole le morirono in gola, quasi asciugate dal calore che le pervadeva la bocca. Meluccia aveva tratto dalla borsetta un fazzolettino di batista e stava asciugando i perniciosi residui umidi dalla superficie del tavolino della nonna Pina.

– E quando torna Mimmo? Non devi preparare il pranzo?

– No, Mimmo oggi resta al lavoro, viene di sera…

– Ah… e che mangia?

Fu cura di Lina rassicurare la cognata relativamente alle fortune alimentari del marito, che non sarebbe morto se avesse saltato il solito pranzo completo di primo secondo contorno e dessert, caffè e ammazzacaffè.

– Povero Mimmo, e quanto lavora!

– Quanto lavora, quanto lavora!

E poiché si era fatta una certa ora, e anche le cognate avevano da pensare ai casi propri, si accomiatarono, promettendo però a Lina che sarebbero venute a trovarla il giorno dopo e gli altri a seguire.

– E poi quando Agatino nasce ti daremo una mano con lui, che all’inizio le mamme si confondono!

E questo Meluccia lo disse quando si trovava già davanti alla rampa di scale, voltando il capo verso Lina mentre già metteva un piede sul gradino. La manovra fu maldestra, il tallone le scivolò trascinandola verso il basso. Nella caduta si aggrappò istintivamente alla prima cosa che capitava, e cioè la mano della sorella, la quale malauguratamente fu trascinata con lei nella caduta. Insieme percorsero praticamente tutta la rampa di scale rimbalzando con quasi tutte le parti del corpo, dalle anche al ginocchio perfino al viso. Quando il capitombolo fu finito, Lina si rese conto che Barbara si era affacciata dietro la porta con la levità di uno spettro, e osservava il groviglio umano con uno sguardo indecifrabile.

– Che fai, aiutale, no?

Ma lo sguardo della signora Lina non era di rimprovero, anzi, sembrava che sorridesse.

L’immagine di copertina è Le cucitrici di Renato Guttuso, foto presa da arte.it