Sono un imbranato elettronico e poco attento al bon ton Web che prevedrebbe una “presentazione”. Per dirla in linguaggio bohème dovrei dire: “chi son?... Che cosa faccio?... e come vivo?”. Beh, preferisco saltare a piè pari tutte queste notizie che credo potrebbero solo alterare un colloquio libero. Sono uno che scrive di quando in quando, e senza ambizioni. Del resto ho esercitato come medico di anestesia e rianimazione in ospedale pubblico… in prima linea. Ancora qualcosa di me ti posso dire che potrebbe avere un significato: la scelta dello pseudonimo usato a lungo in vari blog: ectobius! Che è il nome scientifico di scarafaggio (mi sono anche firmato a volte come Gregor, che è lo scarafaggio di Kafka), l’insetto innocuo, non aggressivo, ma allontanato con ribrezzo… No, scherzo, ma, in conformità col nick, non mi ritengo persona simpatica e di gradevole compagnia. E poi. Mi è capitato di nascere in un paese delle Puglie a metà di un mattino di un giorno di giugno. Una luminosa mattina di giugno, “Corpus Domini”. Tutte le campane della torre campanaria della chiesa madre sfilavano il Gloria. Erano le ore dodici in punto del mattino, e io me ne uscivo in gloria… Sì, in Gloria e, a parere di tutti sotto i migliori auspici; insomma un “unto” dal Signore!, e avrei potuto - anzi avrei dovuto! … Beh, probabilmente, nascevo già scettico... scettico già dall’inizio così senza un perché. Uno scetticismo che poi… la noia e tante altre cose... e ancora beh, lasciamo perdere! Comunque è certo che sono incline alla malinconia e pessimista.

O Dio, che grande gentilezza
abbiamo fatto in passato

O Dio della notte
che grande dolore
Vieni a noi …


Ezra Pound

Era qui il saloon, saliti questi pochi gradini.

Il Bar di Tamburriello.

Tamburriell’?

È dubbio quale fosse l’origine di questo soprannome: ereditato da una famiglia di Tamburrielli? O coniato proprio e solo per lui?

Piccolo mingherlino con il viso pallido butterato a ricordo dell’epidemia di vaiolo; lo sguardo sempre corrucciato; una sigaretta “alfa” costantemente appesa al labbro inferiore in un angolo della bocca; la visiera della coppola ingiallita di nicotina.

Ma questa breve presentazione non spiega il soprannome, spiega casomai solo l’uso del diminutivo.

Forse che il nomignolo gli derivasse da reminiscenze scolastiche molto popolari? del tipo il piccolo tamburino sardo del libro “Cuore”? che era il libro universalmente conosciuto che alla scuola elementare, che bene o male avevano frequentato quasi tutti, era la lettura educativa imposta da generazioni agli alunni.

No!

Più probabilmente il nomignolo gli veniva dal fatto che Tamburriello era sempre stato fatto bersaglio di percosse, proprio come un piccolo tamburo: Percosse!… Pam! Pam!… con la bacchetta a scuola, e poi, via andando, ancora botte, fino a ora che era il gestore del bar più popolare del paese, il bar dei contadini e degli artigiani poveri di estrazione contadina.

Un bar che forse nessuno, al di fuori dei selezionatissimi avventori, conosceva all’interno, e dove, di certo appeso da qualche parte in bella evidenza, c’era il solito cartello:

“La persona civile non sputa in terra e non bestemmia”

Il cartello comunque qui assumeva il tono di uno scherzo decisamente ironico, ché sputi in terra di ogni dimensione e colore erano un ornamento naturale del bar e non infastidivano nessuno.

E le bestemmie, poi?

Costituivano l’ossatura di qualsiasi discorso.

Il “saloon” (così era stato soprannominato, il bar) era più sala giochi che bar: fumoso fino all’inimmaginabile di trinciato forte, sigarette alfa e spinelli arrotolati col tabacco dei mozziconi raccolti “pisciaiuolando”. E niente elettronica delle sale giochi del giorno d’oggi, che non si sapeva nemmeno lontanamente in cosa consistesse l’elettronica… forse trattavasi di parolaccia e allora, a nominarla, potevi sentirti rispondere:

“Elettroniche saranno tua madre e tua sorella!”

E all’imprecazione sarebbero seguite risse con “seggiate”.

E non c’erano biliardi… anzi bb’gggliard’!… e nemmeno scacchiere, che erano giochi raffinati, per signori.

 REGNO DI MORRA E CARTE!

E a soldi si giocava, scopa briscola e tressette conditi da parolacce lazzi e “iasteme” con finale, immancabile, a “seggiate”.

Tamburriello nel trambusto assiduamente e assurdamente interveniva per dividere i contendenti, e finiva sempre col prenderle di santa ragione. Ma, anche quando non c’erano risse, Tamburriello era ancora e sempre il bersaglio di scherzi anche pesanti senza che nessuno mai si interrogasse sulla opportunità di farsene zimbello.

Del resto Tamburriello sembrava fatto apposta per questo, e riceveva sgarbatamente sempre, e a voce urlata, le chiamate per le ordinazioni al tavolo:
“TAMBURRIÈEEE!”
“Veengooo”, e si precipitava al tavolo.

 “Cosa volete?”

“Sparame ‘na sega!”

“VAFANGUL’!!!”
“Eeeh!… ma che ti sei offeso?”

“Ma no…”, rispondeva con tono cordiale Tamburriello abbozzando un sorriso da uomo di mondo, l’alfa all’angolo della bocca e una contrazione intorno ad un occhio che era una specie di ghigno alla Humphrey Bogart.

Lo scherzo era sempre lo stesso, ma Tamburriello ci cascava sempre. Mai che prevedesse.

E non aveva ancora finito di parlare che:

“Be’, visto che non ti sei offeso… allora sparamene un’altra!”

“VAFFANGUL’!!! Va’ da soreta!”

E l’eterno scherzo finiva in grandi risate a crepapelle intervallate da accessi di tosse e scaracchi.

Prendeva l’ordinazione, Tamburriello.

Ritornava al tavolo e questa volta era accolto con sorrisi cordiali e talvolta finanche con un tocco amichevole sulla spalla o sul braccio… gesti che avevano dell’eccezionale per uomini di quella ruvida tempra.

Tamburriell’ ispirava tenerezza, ma anche, e chissà perché, ilarità, ma tutti, in fondo, gli volevano bene, anche se nella furia delle risse era spesso scaraventato fuori dal locale insieme a qualche sedia.

Erano queste peraltro le uniche volte che Tamburriello usciva all’aria aperta di giorno E la luce intensa doveva essere come una ferita per i suoi occhi avvezzi alla penombra del suo antro. Si rialzava velocissimo, rientrava nella baraonda, si lanciava ancora nell’immane compito di dividere i contendenti con il risultato di sempre: finire di nuovo nella strada con le sedie.

A volte le risse erano organizzate per finta, per divertirsi all’impegno di paciere di Tamburriell’, che allora veniva sollevato e lanciato da braccia robuste a braccia robuste nel gioco del “passamano”.

Il bar, comunque, era tutta la vita per Tamburriello. Fuori dal “Saloon del Texas” si sentiva perduto.

Non aveva giorni di riposo: apriva prestissimo, all’alba, e chiudeva solo quando l’ultimo ubriaco, lanciando insulti e bestemmie, e anche qualche sberla, decideva di andarsene.

Un suo fascino lo esercitava un po’ su tutti il “saloon del Texas”: comunicava un senso di allegria e incuriosiva perché si percepiva che la vita lì dentro era altra, era la vita delle campagne, la vita secondo natura i cui valori erano la forza e il coraggio… sicc’ e salvagg’ non disgiunti da generosità, un mondo ove anche le donne venivano apprezzate per la forza, e poi per il senso di concretezza e la disponibilità allegra al sesso.

E sì, perché il sesso era per loro evento gioioso, privo d’ogni tabù, ed esercitato con impeto, come da sempre lo avevano osservato in natura praticato liberamente dagli animali. E la ragazza madre, in fondo, non dava scandalo purché non ci fosse stato tradimento ché, allora, si scatenava una violenza selvaggia.

La vita piccolo borghese del paese era, invece, una vita artificiale e ben ordinata secondo regole rigide cui tutti si attenevano nel loro anelito alla “normalità” del conformismo, della perdita di ogni identità nella massa.

Inevitabilmente anche i contadini, quando soggiornavano fuori del saloon, dovevano adeguarsi a queste regole, e si piegavano a tutto, e verso tutti esibivano un rispetto esagerato e rassegnato come può esserlo solo quello che ci si impone, soprattutto ora, in pieno regime fascista.

Ma il “saloon” era l’eccezione e godeva, come dire, di un diritto di extraterritorialità, una bolla di vita naturale nel conformismo imperante in paese.

Che si ricordi, una sola volta questi giovani contadini si erano lasciati andare alla loro libera esuberanza di vita in pubblico: un gruppo di loro era riuscito a conquistare il palchetto vuoto del cinema del paese – il palchetto che era una semplice pedana in legno più alta dalla platea e riservata alla famiglia del proprietario del cinema – e da lì lanciarono dei preservativi gonfiati.

I preservativi erano una novità del dopoguerra e per loro qualcosa di veramente bizzarro e comico; qualcosa con cui giocare e ridere. E con innocente allegria li gonfiavano e li lanciavano, i palloncini, schiamazzando.

I bambini presenti nella sala li catturavano credendoli (e non potevano diversamente)  innocui palloncini, e si trovarono vicinissimi, in quel frangente, bambini e contadini, per l’unica volta ugualmente innocenti allegri e felici. Forse. Ma il palloncino fu loro strappato di mano con uno scappellotto e un incomprensibile sguardo severo, poi intervenne anche la forza pubblica.

E per anni i bambini dovettero domandarsi perché i palloncini erano permessi alla festa di santo Rocco e al cinema no.

Alla festa di Santo Rocco il paese e la piazza erano invasi dai cafoni: uomini, donne, ragazze in abiti sgargianti e allo struscio partecipavano anche i giovani borghesi che allungavano nella folla le mani a tastare i culi tosti delle ragazze contadine, che non protestavano, anzi, si divertivano ad eccitarli spingendosi contro “la mano morta”.

Il “saloon” era poco frequentato in quei giorni di festa, e i cafoni comperavano alle bancarelle ghiaccio colorato alla “gratta-marianna” e facevano per ore lo struscio Poi, all’ora prevista, non si perdevano una nota della banda di Lanciano applaudendo con gran vigore soprattutto gli spropositati acuti della “cornetta”.

Grande banda quella di Lanciano!

Ed anche Tamburriell’ in quei giorni indossava il vestito della festa e sostava, di sera, sulle scale della soglia del bar che era lievemente sopraelevata rispetto al piano stradale, e da questo punto privilegiato cercava di non perdersi nessun culo e nessuna mano.

E così la festa del patrono era andata, e andava da sempre, e c’era in tutti la certezza che sempre così sarebbe andata nei secoli e per i secoli.

Una certezza che non veniva da complicate analisi intellettuali, ma  dalla convinzione infantile di chi aveva aperto gli occhi su un mondo che non si era modificato di una virgola per tutti i lunghissimi anni di una eterna fanciullezza e che sembrava non fosse stato scalfito nemmeno da quella valanga che fu la guerra.

Anzi, durante la guerra il paese aveva raddoppiato i suoi abitanti per via degli sfollati dalle città bombardate, e la clientela del saloon, di conseguenza, era aumentata con un’iniezione di piccoli trafficanti, ciurmatori intraprendenti pieni di vitalità, bravissimi nel gioco delle carte, maestri della “zella”.

La conseguenza consistette naturalmente in un notevole aumento delle risse.

La guerra poi finì lasciando i suoi segni dappertutto: città distrutte dai bombardamenti; orfani, miserie, dolori d’ogni genere. L’orgoglio italico aveva subito un grosso e irrimediabile scossone e lo avevamo capito anche i bambini, nonostante gli sforzi degli insegnanti a scuola per mantenerlo vivo, l’orgoglio nazionale. Non si sentivano, infatti, più tanto spesso le barzellette sui gruppi di un inglese, un francese, un tedesco, un americano e l’italiano, sempre il più intelligente, che interveniva in fine e metteva tutti in ridicolo.

Il paese, però, sembrava, per altri versi, esserne uscito indenne dalla guerra, tanto che si rinforzava la convinzione che la vita in paese sarebbe continuata come sempre. Non poteva cambiare, no. Non doveva cambiare. E si sarebbe continuato a vivere come sempre e per sempre.

Imprevista e ineluttabile, però, la popolazione prese a diminuire: dapprima lentamente, quasi impercettibilmente e senza i drammi che avrebbero presto urlato il loro strazio.

L’emigrazione!

Che inizialmente fu solo per i più duri, gente rude abituata alla sofferenza, e  l’iniziale lentezza del fenomeno prometteva ancora al paese un’illusione di vita.

Ma il saloon perdeva giornalmente un po’ dei clienti: per primi i più vivaci e forti e poco per volta il bar finì per essere frequentato solo dai più fiacchi.

Una subdola malinconia si era intrufolata nel locale di Tamburriello e pervadeva gli spazi e gli animi degli ultimi frequentatori. La bolla di vita leggera si sgonfiava, si appesantiva, scivolava sempre più in basso trascinando con sé Tamburriello che oramai non si incazzava più, anche quando ancora… in rare occasioni per la verità… una bella incazzatura ci sarebbe stata bene.

Non si organizzavano più scherzi, e le risse a seggiate erano oramai un ricordo. 

Inevitabile che Tamburriello cadesse in una spirale di tristezza, anzi ben presto sprofondò in un preoccupante stato di depressione da astinenza di marmaglia.

Le sorelle, preoccupate, cercavano di consolarlo prospettandogli una ristrutturazione del locale tale da oscurare i due bar borghesi più frequentati del paese.

“Che s’hanna fà Lanzetta e Schiraldi! Metteremo anche noi la macchina del caffè espresso e avrai la migliore clientela, ti libererai di tutta quella marmaglia”.

E non capivano che non poteva esserci rimedio perché era proprio la marmaglia che mancava a Tamburriello.

Prova ne fu che quando, dopo tanto che non lo si vedeva, ricomparve nel bar Rocchino, il leader da sempre della marmaglia.

A ora insolita comparve nel saloon, ed era un mattino deserto nuvoloso e triste.

Tamburriello al vederlo ebbe la sensazione immediata di respirare più liberamente; sentì che gli si alleggeriva quell’oppressione sul petto che da un po’ non lo lasciava mai, e che non dipendeva dall’eterna sigaretta alfa, come aveva diagnosticato il medico “donna Rema”.

Un sole puerile si liberò di prepotenza dalle nubi, e un sorriso… sì! proprio un sorriso… illuminò per la prima volta, dopo tanto tempo, il viso di Tamburriello, e, per la contrazione delle labbra, l’eterna alfa gli cadde dall’angolo della bocca.

“Rocchìiii’!… finalment’!”, quasi gridò.

E, dopo una pausa commossa…

“Cosa posso darti… offre la ditta!”

“… sparame na’ sega!”, fu la risposta quasi automatica di Rocchino, ma il tono era così carico di tristezza che Tamburriello non se la sentì di rispondere col solito “vafangul’ a soreta”.

“Ah Ah Ah! Assaggia mò ‘stu vin’ paesan’… tuost’ e genuino”.

Rocchino, rimasto solo al tavolo, e mentre Tamburriello si affaccendava a preparagli il suo miglior vino, piegò la testa fra le braccia.

Tamburriello si accorse che stava piangendo…

“Ma che fai, Rocchì?…… Che tien’?”

“Niente, Tamburrié!… Fatti li cazzi tuje!”, rispose secco Rocchino e si asciugò col dorso della mano gli occhi.

Poi, però!… dopo un lungo silenzio, e dopo aver bevuto il vino rosso come sangue, Tamburriello al suo fianco come imbalsamato in un rigido sorriso sull’alfa all’angolo della bocca:

“Crai i part’… vac’ in Germania… sotta terra… a la miniera ”.

Era un morto vivo anche lui, Rocchino… e questo fu il colpo di grazia per Tamburriello.

Dopo qualche giorno, nel bel mezzo di una partita a stacce, e interrompendo la filastrocca che precedeva i lanci: “Da ‘nanz’ da dret’ e da lu cuost’, chi l’have se la tene”, un ragazzo arrivò in corsa trafelato e gridò rivolto al gruppo di giovanissimi giocatori e spettatori…

“S’è appecat’ Tamburriell’!”.

I ragazzi lasciarono immediatamente cadere le pietre, raccolsero i bottoni della posta e di corsa verso il saloon a godersi lo spettacolo.

Arrivarono contemporaneamente al maresciallo Rossi affannato più di loro e sudatissimo.

“ Largo, largo, non c’è niente da vedere!”.

Il maresciallo entrò nel bar e fece chiudere la porta, imbucò la botola e scese in cantina accompagnato dal brigadiere.

“ Lasciate tutto come si trova e chiamate il pretore”.

In paese non c’era pretore, bisognava farlo arrivare da un altro paese e ci sarebbe voluto del tempo.

Il maresciallo uscì sulla porta e dall’alto dei gradini arringò la piccola folla:

“E’ morto Tamburriello!”.

Poi mise le mani sui fianchi e, dopo una breve pausa, gonfiando il possente torace italico, con voce stentorea:

“Aspettiamo il pretore… Frattanto il locale resterà chiuso e poi resterà ancora chiuso per lutto… Andate a casa… ci vorrà qualche ora prima che arrivi il pretore. IL LOCALE RESTA PIANTONATO!”.

La piccola folla considerò lo spettacolo momentaneamente sospeso e stava per disperdersi quando da lontano un urlo straziante la ricompattò.

Arrivava la sorella di Tamburriello.

Il maresciallo si preparò all’assalto e consolidò la sua stabilità allargando le gambe, irrigidì il suo massiccio corpo e riuscì a non perdere l’equilibrio al violento previsto impatto.

E resse anche la porta del bar.

Cosicché alla sorella di Tamburriello non restò altro da fare per alcuni minuti che batterla con i pugni e graffiarla finché non comparve del sangue intorno alle unghie. E scostumatamente piangeva:

“Frat’ mje…frate mje… frate mje…”.

A questo punto delle brave donne la staccarono dalla porta e la portarono nel salone del barbiere Simone a faccia-fronte; fu fatta sedere sulla sedia di barbiere ed anche lei aspettò, solo debolmente gemendo, l’arrivo del pretore.

“Venite… venite che si vede”, disse uno della piccola banda dei ragazzi… quasi sussurrando.

Si mossero in gruppo, scesero le scale che fiancheggiavano l’edificio del bar e arrivarono a una finestra piuttosto alta rispetto al piano stradale, con le inferriate. Sollevandosi sulle punte dei piedi, a turno, sbirciarono nella penombra della cantina… e videro… anzi intravidero solo la testa di Tamburriello, di nuca, calva piccola e rotonda… e appesa.

Qualcuno disse:

“Pare nu cascavall’ (caciocavallo) ” e, trattandosi di Tamburriell’, gli altri risposero con una sommessa risata.

Passò ancora qualche ora prima che giungesse in piazza la macchina dei carabinieri. Vi scese il pretore, di piccolissima statura, ma con minuscoli occhiali rotondi che gli conferivano una espressione autoritaria, e fu accolto dal sindaco Magaldi anche lui piccolo e occhialuto.

Dopo alcune strette di mano incrociate e silenziose, si avviarono in piccolo corteo verso quello che era stato il “saloon”, il pretore e il sindaco davanti al passo. Li seguivano il mastodontico maresciallo Rossi e il brigadiere… chiudeva il corteo un signore anziano male in arnese con dei fascicoli sotto le ascelle e una borsa nella mano destra, forse era il cancelliere.

La piccola folla alla soglia del bar, rinfoltita alla notizia dell’arrivo delle autorità, si apriva al loro passaggio.

Il sindaco non volle entrare e aveva gli occhi lucidi dietro le lenti. Vi entrarono il pretore, il maresciallo, il brigadiere e quello che doveva essere il cancelliere.

Ci fu un tentativo doveroso e rumoroso di forzatura del blocco da parte della sorella di Tamburriello, però presto domato dalle brave donne e dalla forza pubblica, poi la piccola folla ammutolì, in attesa di apprendere i più raccapriccianti particolari.

Il cielo profondo gorgogliava blublu… blublu… blublu… blublu… il sole lo percorreva come da miliardi di anni… i rondoni si precipitavano stridendo in gruppo a volo radente e sfioravano le tegole alte sulla porta del saloon a toccare i nidi che erano loro da generazione e la carezza del favonio portava con sé un silenzioso lamento.

L’immagine di copertina è Mc Sorleys Bar di John Sloan presa da ArtSpecialDay.com