Daniela Ginex vive e lavora a Catania. Ha collaborato con la rivista Paidòs, dove ha tenuto una rubrica umoristica. Ha pubblicato con Algra dei racconti in antologia (L’arte di perdere, Albe, Zenith, Ci rifaremo vivi, All’imbrunire, L’inseguimento) e il romanzo Divagazioni amorose.

Nostalgia

Di Daniela Ginex

Racconto pubblicato nella raccolta dal titolo L’arte di perdere, Algra Editore

Esattamente nel momento in cui il Duce annunciava alla radio la dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940, la signora Angelina Agnello-Rascunà gli faceva eco con gli strilli che accompagnavano la venuta al mondo del suo primo figlio maschio. L’orgoglioso padre mostrò subito virilmente tanta progenie al fratello Carmelo, accorso apposta per l’evento. Ovviamente la coincidenza con la giornata storica portò alla scelta obbligata del nome, Vittorio: perché era la vittoria che senza ombra di dubbio i fecondi destini della patria stavano preparando per gli Italiani.

Lo zio Carmelo Agnello-Rascunà, già deputato, quindi gerarca a pieno titolo membro del Gran Consiglio del Fascismo, era il nume tutelare di casa; pur vivendo stabilmente a Roma, non mancava di visitare la sua famiglia di origine, quando tornava alla natìa Catania. Il piccolo Vittorio venne cresciuto nel culto di questo autorevole zio. Senza però poterne conservare un ricordo personale, purtuttavia, perché dopo l’otto settembre egli era partito alla volta di Salò e non se ne era saputo più nulla.  La Liberazione e la Repubblica furono vissute in famiglia come una sorta di catastrofe nazionale; un ricordo sbiadito di quei tempi era quello di suo padre che fumava, seduto in poltrona, con le cortine della finestra tirate, mentre dalla strada proveniva lo schiamazzo dei festeggiamenti per la guerra finita.

Il professore Vittorio Agnello-Rascunà aveva coltivato nell’ombra la venerazione nei confronti dello zio e degli ideali che incarnava, principalmente collezionando dei cimeli già conservati gelosamente dai genitori e che ora, venuti in suo possesso, venivano trattati da lui come reliquie; nessuno poteva accedere allo studio in cui erano custoditi in una sorta di mausoleo, e soltanto lui provvedeva personalmente ad una periodica amorevole spolveratura. La sera, spesso, riprendeva le lettere dello zio, che pure conosceva a memoria, e le rileggeva con un sospiro.

Dopo il pensionamento, il professore era riuscito a mettere in pratica un progetto che coltivava da tutta una vita. Discreto pittore – dipingeva nei fine settimana – aveva finalmente deciso di trasformare in realtà l’ambizioso sogno di sempre: un quadro grandissimo – circa due metri e mezzo per quattro – composto da quattro pannelli accostati fra di loro e raffigurante la marcia su Roma. Era una rivisitazione personale della più famosa opera del futurista Balla: Vittorio aveva infatti dato il giusto risalto alla figura dello zio Carmelo che, le fonti familiari giuravano, aveva partecipato in prima persona allo storico evento. E infatti lo zio Carmelo era ben visibile, al centro del quadro, appena dietro a De Bono e Mussolini, con un gagliardo pizzetto e l’espressione accigliata, fortemente compreso nel ruolo di artefice del destino di grandezza della Nazione. Quell’opera era pronta per uscire dall’ombra per rivelare al mondo la sottaciuta verità storica.

 Nel suo “laboratorio”, chè così lo chiamava, sembrandogli “atelier” fiaccamente effeminato, Vittorio contemplò per l’ennesima volta il viso maschio dello zio Carmelo, per dipingere il quale aveva speso anni e anni, preparando numerosi bozzetti a matita e anche qualche piccola tela. Le foto in suo possesso, che gli avevano fatto da modello, erano appese a un cavalletto, dove erano anche riposti i colori. In quel momento, però, non trovava degli stracci che gli servivano per nettare i pennelli.

  • Rosetta!

Erano passati nove anni dalla morte della moglie, ma capitava ancora che gli affiorasse alla bocca il suo nome, così che a volte, dimentico di essere ormai solo, la chiamava ad alta voce; non pago di avere posto fine alla sua vita, o almeno di averne anticipato il termine con la sua presenza soffocante, ne turbava il sonno eterno, se è vero che i morti ascoltano le invocazioni dei vivi.   

E poiché Rosetta non poteva rispondere, il professore andò a cercare personalmente quegli stracci. Nell’affacciarsi al balcone, dove i medesimi erano riposti in un armadio esterno, non potè fare a meno di sospirare alla volta del piano superiore, dove i nuovi inquilini stavano procedendo a lavori di ristrutturazione del loro appartamento. Quella donnetta pettegola della portinaia aveva provveduto ad avvisarlo tempestivamente dell’arrivo della nuova coppia.

  • Lo sa, professore, al quinto piano vengono a stare due carusi, sono gay, però brave persone sa?

Se c’era una parola che suonava peggio alle sue virili orecchie di “finocchio, checca, invertito, ricchione”, era quell’orrendo termine: gay: l’ennesima prova del servilismo linguistico del nostro povero paese “dove il sì suona” nei confronti della perfida albione; “gay”, una parola che sembrava ammantare di indulgenza l’eresia sodomita.

Già era un fastidio avere dei vicini giovani, possibilmente rumorosi; che le varie maestranze martellassero ad orari impossibili… ma che due uomini nel fiore degli anni, piuttosto che andare a prendere senza sforzo tutte le donne che facilmente si offrivano nel nuovo secolo, preferissero inchiappettarsi fra di loro: questo era al di là di ogni sua possibilità di comprensione.

  • Avessi trent’anni di meno, altro che! Saprei io! – disse, rivolto verso l’alto, ma ascoltato soltanto da un montacarichi scarsamente interessato alla sua invettiva.

Rientrato in casa, si avvicinò con grande preoccupazione alla parte bassa del quadro, dove la ghetta di Benito sembrava riportare una piccola macchia; ma a un’occhiata più attenta, data con circospezione, visto che le giunture non avevano più l’elasticità necessaria, potè trarre un sospiro di sollievo. Si fece indietro, le spalle alla parete opposta. Era pronto, finito, compiuto, non c’era niente altro da aggiungere; bisognava solo lasciarlo asciugare alla perfezione – con la tempera era questione di poco – e poi avrebbe passato la vernice spray che lo avrebbe reso immortale. Ma questo lo avrebbe fatto dopo il viaggio: l’asciugatura doveva essere perfetta, meglio aspettare qualche giorno in più.

L’indomani infatti era il giorno della partenza: l’ora delle decisioni irrevocabili era giunta. Dopo estenuanti contatti con il sindaco di Predappio, era finalmente riuscito a strappare un appuntamento di persona; era un comunista ma intelligente, che aveva in programma di allestire un museo del fascismo. Gli aveva scritto, con molta cautela ovviamente, perché di questi tempi quelli come lui erano messi al bando; e quello si era mostrato interessato ai cimeli che Vittorio intendeva proporgli – non tutti ovviamente, perché quelli a cui teneva di più non li avrebbe mai ceduti: le lettere di Mussolini, la divisa, il pugnale con il fascio. Ma se avesse generosamente donato alcuni di essi, magari il sindaco avrebbe accolto con favore la sua idea di mettere il pannello proprio all’ingresso del museo; sarebbe stato un prezzo giusto da pagare per dare allo zio il posto nella storia che veramente meritava.

Si preparò per la solita passeggiata mattutina e scese le scale. La sporcizia dei lavori del quinto piano imbrattava l’androne. Quei froci di merda! Bussò dalla portinaia per protestare.

  • Signora, dica ai signori del quinto piano che si pregino di ripulire questa lordura… questo è un condominio rispettabile… – riferendosi, in cuor suo, più alle abitudini carnali dei nuovi inquilini che alla polvere lasciata dagli operosi manovali.
  • Professore, faccia un poco di pazienza, che tanto hanno finito, ora, sa, stanno montando l’ultima cosa, la vasca con l’idromassaggio! Beati loro, eh, lei che dice professore?

Vittorio trasecolò, al tentativo di quella massaia rurale di corrompere la sua integrità con un banale ritrovato della vita moderna. Immaginò quella vasca come sentina di vizi degni di un Sardanapalo e si allontanò salmodiando.

  • Ma io me ne frego! O tempora, o mores! Pervertiti! L’olio di ricino, ci vorrebbe…

E dentro di sé, pensò che non avrebbe avuto scrupoli a metterli a muro e fucilarli, quegli immondi pederasti. Era colpa loro se l’Italia stava andando dove stava andando, e ora volevano pure sposarsi e fare figli! Ce ne voleva un altro, di Benito!

Era ancora contrariato, quando rimise piede a casa, verso mezzogiorno.

  • Rosetta!

Non fece a tempo a maledire la sua mente svanita che sentì suonare il campanello. Aprì con ancora in mano un involto, dove una sogliola e delle patate attendevano di passare per le cucine.

  • Buongiorno, professore, ci scusi per il disturbo… siamo gli inquilini nuovi del piano di sopra…

Vittorio strinse più forte la sogliola, come se fosse l’ultimo baluardo della sua anziana virilità, e per alcuni secondi non fu in grado di sentire quello che il giovane diceva. Però, se lo avesse incontrato per strada non avrebbe mai immaginato che era un finocchio. Ormai si sanno mimetizzare, sembrano normali.

Quindi ascoltò, senza riuscire a frenare la sua irritazione, il consiglio dei due; che, avendo fatto dei lavori di ripristino delle condutture idrauliche, e avendo trovato gli impianti alquanto vetusti, suggerivano di intervenire immediatamente con delle migliorie, soprattutto nella parte adiacente al terrazzo; potevano anzi mandare il loro idraulico, che era molto bravo e competente, e disponibile anche subito…

  • Lorsignori mi scusino, ma per il momento sono alquanto affaccendato con incombenze di ordine superiore, che mi riportano immediatamente lontano da casa… e poi questo edificio, finora, ha svolto egregiamente il suo compito, gli impianti, finora, non hanno dato mai problemi, pertanto credo proprio che questa conversazione abbia termine qui. I miei rispetti.

Concluse, quasi chiudendo loro la porta in faccia. Non aveva nemmeno porto la mano, che anzi stringeva ancora la sogliola, così da scongiurare una eventuale trasmissione del male per contatto.

Il professore si preparò il pranzo pensando al viaggio a Predappio, eccitato dai luminosi destini che lo attendevano. Quindi scattò delle istantanee al pannello,  in modo da mostrarle al sindaco. Molte volte uscì dalla stanza e rientrò per il gusto di ammirarlo come se fosse la prima volta. Gli venne la tentazione di chiamare la moglie, ma questa volta lo fece solo nella sua mente. Preparò il modesto bagaglio e andò a letto presto.

Con la luce del mattino il pannello era ancora più magnifico. Le figure sembravano in movimento, tanto l’illusione della realtà era ben riuscita. E la cosa che più lo inorgogliva era avere reso il piglio virile dei quadrumviri, senza che la figura dello zio Carmelo sembrasse per questo messa in secondo piano; anzi, con i suoi nobili lineamenti da console romano, sembrava avere un ruolo di primissimo piano nell’azione, forse anche di guida spirituale. Toccò delicatamente un angolo, che era perfettamente asciutto; al ritorno si sarebbe messo definitivamente al lavoro per la finitura che avrebbe impresso alla dignità della famiglia il sigillo della Storia. Chiuse accuratamente le serrande – non si sa mai, un acquazzone imprevisto avrebbe potuto fare entrare qualche goccia di acqua – e chiamò il tassì che lo avrebbe condotto all’aeroporto.

Due giorni dopo era di ritorno. Non era andata esattamente come pensava lui; il sindaco aveva nicchiato sulla possibilità di acquisire il pannello – sempre comunista era. Ma lui era sicuro che il direttore del museo, non ancora nominato, avrebbe preso la decisione giusta. Sarebbe tornato per trattare direttamente con lui.

Si sorprese a trovare l’interruttore della corrente staccato. Posò la valigia a terra e procedette a tentoni, fino a quando non riuscì ad attivarlo; quindi si diresse immediatamente al suo laboratorio, dove fu colpito da un odore pungente di umido.

L’anomala consistenza del pavimento ai suoi piedi lo portò ad abbassare gli occhi per terra prima di portarli al pannello. Le sue scarpe erano immerse in una poltiglia grigio-azzurrina. Si soffermò a lungo chiedendosi cosa diavolo fosse, poi si guardò intorno, e infine i suoi occhi si poggiarono sulla parete che accoglieva l’opera.

In un primo tempo si disse che forse aveva sbagliato stanza, o che aveva riposto altrove il pannello, prima di partire; ma quella era la stanza più grande, l’unica che poteva accoglierlo. Doveva credere ai suoi occhi, che gli dicevano che il quadro era stato in gran parte dilavato da una perdita d’acqua proveniente dal piano di sopra: era possibile vedere l’enorme macchia ancora gocciolante sul soffitto. Nella sua parte centrale, il pannello era praticamente tornato al suo originario colore marroncino chiaro, proprio di un onesto e umile legno, se si escludeva qualche tratto di carboncino che aveva eroicamente resistito all’alluvione. Fra le figure era possibile riconoscere a stento soltanto l’orecchio sinistro del Balbo. Per il resto, tutto: quadrumviri, ghette, Duce, camicie nere, zio Carmelo, cinturoni, tutto, tutto si era mescolato in un’unica poltiglia spiaggiata sul pavimento, che anzi sembrava ancora più scura in corrispondenza della figura di Mussolini.

Ci volle un minuto buono perché il professore riuscisse ad articolare una parola.

  • Ro..setta!

Fu l’ultima volta che chiamò sua moglie. Cadde a terra pesantemente, a faccia in giù, ma con il viso rivolto verso le foto dello zio che lo guardava corrucciato dal cavalletto. Così lo trovarono, gli occhi ancora sbarrati di disperata sorpresa, e il braccio destro alzato per metà, in uno sforzo di aitante, virile saluto romano.

L’immagine di copertina è La marcia su Roma di Balla