Sono un imbranato elettronico e poco attento al bon ton Web che prevedrebbe una “presentazione”. Per dirla in linguaggio bohème dovrei dire: “chi son?... Che cosa faccio?... e come vivo?”. Beh, preferisco saltare a piè pari tutte queste notizie che credo potrebbero solo alterare un colloquio libero. Sono uno che scrive di quando in quando, e senza ambizioni. Del resto ho esercitato come medico di anestesia e rianimazione in ospedale pubblico… in prima linea. Ancora qualcosa di me ti posso dire che potrebbe avere un significato: la scelta dello pseudonimo usato a lungo in vari blog: ectobius! Che è il nome scientifico di scarafaggio (mi sono anche firmato a volte come Gregor, che è lo scarafaggio di Kafka), l’insetto innocuo, non aggressivo, ma allontanato con ribrezzo… No, scherzo, ma, in conformità col nick, non mi ritengo persona simpatica e di gradevole compagnia. E poi. Mi è capitato di nascere in un paese delle Puglie a metà di un mattino di un giorno di giugno. Una luminosa mattina di giugno, “Corpus Domini”. Tutte le campane della torre campanaria della chiesa madre sfilavano il Gloria. Erano le ore dodici in punto del mattino, e io me ne uscivo in gloria… Sì, in Gloria e, a parere di tutti sotto i migliori auspici; insomma un “unto” dal Signore!, e avrei potuto - anzi avrei dovuto! … Beh, probabilmente, nascevo già scettico... scettico già dall’inizio così senza un perché. Uno scetticismo che poi… la noia e tante altre cose... e ancora beh, lasciamo perdere! Comunque è certo che sono incline alla malinconia e pessimista.

Eccidio del 1902

Di Luigi Martinelli

C’è stato anche un tempo che tra le bancarelle dei mercati ambulanti figurava anche quella degli schiavi.
Probabilmente non avevano, gli schiavi in vendita, i cartellini con il prezzo attaccato sul petto, ma per ognuno si contrattava guardando i denti come agli animali della fiera agricola di santo Rocco. L’acquisto dello schiavo allora era, in tutto e per tutto, un investimento, e pertanto bisognava che restasse in salute e durasse; un investimento come l’acquisto, in seguito, di un trattore che lo devi curare seguendo scrupolosamente le istruzioni per un perfetto mantenimento: cambio oli, lubrificazione, pulizia, controlli dal meccanico, etcetera, e, per lo stesso motivo, lo schiavo acquistato riceveva tutte le cure a quel tempo. Poi venne il tempo che gli schiavi li si poteva allevare in proprio; veri allevamenti intensivi per i latifondi, e ce n’erano tanti che non era il caso di spendere in cure: bisognava sfruttarli oltre ogni limite fino a renderli inservibili e compensarli con il minimo: un salario scandaloso che consisteva in pochi centesimi, più il pane e poco olio; di conseguenza il vitto di questi poveri disgraziati non poteva che consistere in pan cotto condito con un filo di olio ed erbe raccolte in giro nei campi. E anche i bambini venivano utilizzati per il lavoro: i “carusi” del latifondo, ma di essi non se ne parlava come dei “carusi” delle solfatare in Sicilia.
La selezione dei futuri schiavi iniziava da subito, a partire dall’età scolare; nelle aule scolastiche c’erano file di banchi separate: le file degli asini e quelle dei bravi e già dal primo giorno nella fila degli asini dovevano sedere i figli di contadini, riconoscibili per le cartelle di pezza e pezze ai vestiti. Avrebbero frequentato, quando andava bene, solo fino alla quinta elementare (scuola dell’obbligo?), interessava solo che almeno imparassero a porre la firma in calce ai documenti preparati dai padroni (ricordate “Fontamara”?)
Il maestro avrebbe fatto volentieri a meno di questi “alunni” della fila degli asini: li considerava meno che ospiti sgraditi; non si curava di loro, pretendeva solo che se ne stessero tranquilli per quattro-cinque ore, altrimenti botte… e di gusto!, fino a lasciare i segni. E a casa il resto e tante grazie al maestro, perché “mazze e panelle fanno i figli belli”. Ma questi belli non sarebbero mai diventati ché da subito sarebbero stati messi al lavoro nei campi a spezzarsi la schiena.
A questi poveri ragazzi la cultura era negata nonostante fuori della scuola fossero i più bravi in tante cose (e sapessero e capissero molte più cose dei molti della fila dei cosiddetti bravi), ma a fine del ciclo scolastico dell’obbligo (se pure riuscivano a completarlo), e non per colpa loro, sapevano a stento “di leggere e di scrivere”.
Nessuno mai aveva verificato che fossero, per natura, indifferenti (e lo affermavano) alla cultura, anzi io penso che, se non fossero stati abbandonati, chissà quanti di essi avrebbero potuto dare lustro alla loro “Patria” matrigna: basti pensare a Giuseppe Di Vittorio, autodidatta (terza elementare) che, in mancanza di quaderni e matite, imparava a scrivere con un carboncino sui muri imbiancati.
La loro vita era da fame, eppure mettevano al mondo tanti figli: si figliava come conigli in quelle campagne.
E perché, poi?
Ne mettevano al mondo tanti di figli ‘sti poveri cristi sderenati e segregati, perché la prole era il loro unico possesso, l’unica risorsa per la sopravvivenza, specie in vecchiaia senza pensione.
La pensione?… cos’è la pensione?
E occorreva farne tanti di figli poiché molti morivano da subito, già al momento del parto, al primo vagito… e spesso si portavano nell’aldilà anche le mamme.
Poi?
Se gliel’avevano fatta al parto, c’erano i mille malanni dei primi anni di vita nell’ambiente malsano del latifondo (a dire il vero anche in paese l’ambiente era malsano, in case senza acqua, né fognature).
Quando morivano queste innocenti creature, l’unica frase di consolazione che i genitori potessero ricevere era:
“Meglio così!… una bocca in meno da sfamare”.
E loro accettavano il macabro conforto nel loro viaggio buio; scendevano senza capire, adagiandosi come per prendere sonno.
Moltissimi braccianti vivevano (vivere? Si fa per dire) in paese e partivano in piena notte, alle due del mattino, per raggiungere le “pezze”… chi a piedi e chi su un carretto.
Quando calavano dalla ‘cittadella’ diretti ai carretti che li attendevano nella vianova le c’ndrell’, i particolari chiodi infissi sulle suole per ritardarne il consumo, producevano sull’acciottolato una musica come di gentile limpido ruscello sorgente dal quartiere S. Tummas’ fino a raggiungere la piazza e la vianova: un ruscello limpido come limpidi in realtà erano i braccianti con le cendrelle!
Alcuni (pochi) si concedevano il lusso di una breve sosta in via Masulli per un caffè caldo, di orzo naturalmente, solertemente preparato per loro da Nuccio lu caff’ttiere, che li accoglieva sempre con un dolce sorriso e una battuta spiritosa.

Le condizioni contrattuali cui erano sottoposti questi poveracci sfruttati fino alla inabilità fisica erano agghiaccianti; condizione terribile da veri schiavi che aveva ben poco da invidiare ai campi di lavoro nazisti.
Ma finalmente fu istituita una lega dei contadini che fece pervenire ai padroni proprie richieste, soprattutto salariali; ancora e sempre calcolate in centesimi. Ma naturalmente le richieste furono brutalmente respinte, tanto da far scattare “un sussulto d’orgoglio nel cuore dei tanti lavoratori” che si rivoltarono e organizzarono uno sciopero con blocco stradale che impedisse a chiunque di raggiungere le campagne.
E arrivò il gran giorno del riscatto, almeno in dignità.
In previsione, nonostante si fosse certi che non ci sarebbe stata violenza, furono messi in allerta i carabinieri del paese, e preventivamente erano stati già inviati in paese militari dell’esercito.
La vianova fu sbarrata da un folto gruppo di braccianti e anche molte donne parteciparono al blocco. Tutto procedeva tranquillo e solo il maresciallo (Centanni si chiamava e bisognerà sempre ricordarselo) si agitava e gridava ordini ai carabinieri e ai sodati. Frattanto nelle retrovie i padroni si organizzavano e riuscirono a caricare i più poveri e deboli dei braccianti su due carri (traìni) con l’intenzione di forzare il blocco. I braccianti rafforzarono il presidio, e la confusione era grande.
Tutti urlavano e il maresciallo più di tutti… e non si strozzava.
I cavalli del traino cominciarono ad agitarsi scalpitando fino al limite di poter capovolgere i “traìni” con tutto il carico, ma nessuno della forza pubblica interveniva… di certo speravano si verificasse un grave incidente, ma una donna, sola (detta “la munacella”), si fece avanti e afferrò il morso dei finimenti fermando e acquietò i cavalli.
Alle spalle della monacella si era frattanto portato il maresciallo (Centanni, ricordatelo!) che strattonò la donna facendola cadere. Un gesto, quello di alzare le mani su una donna, che era considerato fatto veramente grave per la morale del tempo, tanto che uno scarparo (mannaggia! non ricordo il nome) non poté resistere all’oltraggio e colpì sul capo con un mezzo contundente il maresciallo che si girò di scatto e, a bruciapelo, esplose vari colpi di pistola uccidendo sul posto il coraggioso scarparo.
Dalla folla allora sembra che partissero dei sassi e dico sembra perché quei sassi, nella ressa, avrebbero potuto colpire i propri compagni e mai se lo sarebbero perdonato.
Comunque era questo che si aspettavano gli armati, cercavano un pretesto, anche provocando un disordine, per metter mano alle armi, e quando poi videro scendere un filo di sangue dal capo del maresciallo, non ci furono più freni e iniziarono gli spari. Ci fu un fuggi fuggi con inseguimento a colpi di arma da fuoco. Non che potessero correre molto veloci i braccianti malnutriti, assonnati e affaticati; cercavano di raggiungere le proprie abitazioni lontane, cercavano di nascondersi. Uno di loro, completamente sfiatato, si rifugiò sotto un carro: presto scoperto ed ebbe appena il tempo di dire “Mi arrendo”, che fu raggiunto e crivellato da un nugolo di proiettili.
Il maresciallo era una furia!
Gridava, ordinava e sparava in ogni direzione.
I padroncini anche, desiderosi di dare una mano al massacro, sparavano fucilate attraverso le fessure delle persiane: non che potessero certo colpire a morte, ma qualche ferito sicuramente poté essere messo a loro carico.
La confusione era totale, rumori di spari e di scarpe con centrelle sull’acciottolato: una donna ancora inconsapevole aprì la vetrina del suo sottano, si affacciò alla strada. Ebbe appena il tempo di dire:
“Che staje succ’renne?”.
E PAMM!
Un proiettile le fece scoppiare il cranio e cadde esanime sulla soglia di casa.
Si andò avanti così per ore e, oltre i morti e feriti, ci furono molti arrestati poi rinchiusi nel carcere di Lucera.
I feriti non si recavano dal medico e si arrangiavano da soli (non saprei con quali cure) e non posso escludere che qualcuno sia morto in seguito per complicanze.
Filippo Turati portò la notizia in Parlamento accompagnandola con un appassionato discorso, ma non ebbe alcun seguito.
Il giorno successivo alla strage, il consiglio comunale riunitosi al completo spudoratamente ebbe il coraggio di decretare all’unanimità un “encomio solenne” al maresciallo.
VERGOGNA!!!
Somma vergogna della quale mai fu fatta ammenda dal Comune; almeno così mi sembra (non ne sono certo), tanto che a tutt’oggi non esiste nemmeno una piccola lapide al ricordo di quei delitti.
I morti?
Ebbero un funerale?
Non lo credo: probabilmente furono “gettati” in una fossa comune come criminali.

Dopo qualche tempo fu celebrato un processo ai carcerati nel carcere di Lucera, e finalmente ci furono dei giudici seri che non solo resero liberi i prigionieri, ma nella sentenza ristabilirono la verità dei fatti.
Nessuno degli assassini fu condannato; il maresciallo “centanni” non fu estromesso dal corpo dei carabinieri, ma solo trasferito in altra sede.

L’immagine di copertina è 8 settembre, eccidio di Candela, tratta da socialismoitaliano1892.it