Giacomo Colomba Web writer, scrittore, viaggiatore e poeta, Giacomo Colomba è uomo di vasta cultura e ancor più vasta curiosità. Ricercatore indipendente, atipico e poco convenzionale, decide di lasciare gli studi a 15 anni per mettersi in viaggio tra Europa, Africa e Asia, soprattutto in India, dove da anni vive e lavora e della quale ha una profonda conoscenza. È articolista per la De Agostini, le sue poesie in italiano ed in inglese sono state pubblicate in varie antologie, ed è ghostwriter e scrittore di viaggio su commissione. Ha autopubblicato Le Sette Tetradi dello Yoga Integrale, in procinto di uscire in Italia,

Di Giacomo Colomba

Xenofobia e xenofilia sono due caratteristiche della natura non solo umana, ma animale in generale, le troviamo infatti anche negli invertebrati. Sono in noi e sono inevitabili, almeno fin quando l’essere umano si rassegna a considerarsi un animale, quel bel bipede con una mente soggetta alle scariche ormonali e quindi non libera di creare al di sopra di tutti gli istinti che compongono il paradigma basato sull’istinto di sopravvivenza e quello di riproduzione. Ma visto che una mente è presente in noi e che questa è capace di sollevarsi, per lo meno parzialmente, al di sopra del tempo e dello spazio per capire pattern di ampio respiro, perché non utilizzarla per dedurre quale tra queste due tendenze risulta piu’ utile a lungo termine per la specie umana? E’ giusto difendersi dal diverso o è meglio aprirsi ad esso? Mettiamo per un attimo da parte tutte le morali del bene e del male e misuriamo la faccenda in termini di utilità.

Mi permetto di tirare in ballo un studio dei ricercatori del Max Plank Institute, tra i quali lavora anche un caro amico, Fabrizio Mafessoni. In tale studio su un frammento osseo ritrovato nel 2012 nella grotta di Denisova, Repubblica di Altai, Russia, si nota come due specie considerabili come i nostri più vicini parenti estinti (l’uomo di Neanderthal e quello Denisova), tendevano ad accoppiarsi tra di loro nonostante fossero specie diverse. Pare che anche gli orsi moderni derivino da specie varie che si incrociarono anche con l’orso delle caverne.

E tutto questo, anche per soddisfare il piacere di andare fuori tema, mi fa pensare al mistero che l’amore rappresenta in mezzo a tutta la chimica sessuale che spinge un individuo a sceglierne un altro e ai cartoni di Miyazaki, o meglio, all’amore nei suoi cartoni.

L’amore ed i cartoni animati hanno poco di scientifico ma tant’è, molto spesso vedo l’amore umano, soprattutto quando ingineprato col senso della famiglia, della cultura e scadendo di qualità, con quello del gruppo etnico, della religione e della nazione (il famoso “mogli e buoi”…) come una vestigia evolutiva, proprio al pari del coccige o della plica semilunare. Un tratto animale che rimane da sopportare, duro ad andarsene.

Nelle opere dello Studio Ghibli l’amore è un elemento quasi sempre interspecifico, come la forma che assume l’amore quando trascende anche solo di un po’ i limiti di quello umano. Abbiamo più o meno in ordine: una ragazzina che ama un uomo-maiale (tra l’altro ex-fascista), una ragazzina che ama lo spirito di un fiume in forma di drago, una vecchia che però è giovane che ama un ragazzo-demone, un ragazzo che ama una ragazza che però è un drago, un pesciolino che evolve in bambina che ama un bambino, un ragazzo che ama una lillipuziana, un’abitante della luna nata in un bamboo che ama un ragazzo, un uomo che ama una tartaruga marina.

En passant, io amo ancora Yumi del pianeta Zotra del cartone Ulisse 31 e la mia attuale compagna appartiene alla tribu’ Tiwa dell’Assam, con sangue proveniente dalla Mongolia.

L’amore umano comunemente vissuto è cosi’ etnocentrico e centripeto che ritarda una vera evoluzione, sia induviduale che di specie. Ma sappiamo che sono l’imprevisto e l’inatteso a rappresentare i veri volani dei movimenti desossiribonucleici, eppure ne abbiamo perso consapevolezza, abbiamo cominciato a non sentire più empatia e attrazione per le altre specie, poi per le altre subspecie, e infine sempre di meno per quelli che non sono del nostro gruppo etnico, che non hanno la nostra cultura o che non parlano la nostra lingua. Fino ad odiarli, e questo rallenta ed indebolisce il nostro DNA, e rende meno performanti non solo i nostri muscoli ma anche la nostra anima.

Non è un caso che sia nei cartoni di Miyazaki che nella realtà siano i bambini i più portati ad una amore interspecifico, perché non hanno neanche bisogno di aver coltivato il gusto dell’esotico per trovare una scusa subcosncia per riflettersi nel diverso.

Il termine “ibrido” etimologicamente significa insolente, colui che di proposito rompe le regole. Sì, ma quali regole? Quelle del passato, in tutto rispetto di un possibile futuro nel quale una parte di noi (quella capace di amare) vive già. L’Homo sapiens era il futuro di quell’atto sessuale insolente tra una femmina neandertaliana e un maschio di Denisova. Se non avessero trasgredito, non saremmo qui. E vale la pena notare che anche l’etimologia di trasgredite è assai interessante poiché significa “transitare di grado”, ovvero evolvere. E l’Ali’ dagli occhi azzurri pasoliniano è il simbolo di carne di tale ibridazione; attraversa il Mediterraneo per amare o per uccidere, a seconda di come accogli le sue triremi.

La tassonomia può essere impugnata per giustificare sia la xenofobia che la xenofilia, poiché di per sé è solo una scienza e vuol dire poco. Quello che davvero conta è l’eventuale presenza di qualcosa in noi che vuole evolvere per manifestare il nuovo, o la sua assenza, che cerca di inchiodare gli alleli che compongono il DNA al loro posto, su un croce desossiribonucleica da dove non vogliamo che si muovano, per venerarli morti e definiti una volta per tutte. E’ la vita che fa paura, ne è spaventata la pigrizia con tutti i suoi sacrosanti diritti a non voler evolvere. Finiremo per amare solo noi stessi per incapacità di vedersi anche in chi ci è piu’ prossimo. Finiremo, finiremo a buon rendere, percheé l’amore intraspecifico non è il solo strumento dell’evoluzione, anche l’estinzione lo è. Ama o estinguiti, evolvi o odia.

L’immagine di copertina è una riproduzione di Leda e il cigno ritrovata a Pompei (Foto da Vanity Fair)