Roberto Cocchis, classe 1964, nato a Bari, cresciuto a Napoli, oggi residente nel Casertano dopo aver trascorso molti anni nel Nord Italia. Diversi lavori svolti nella vita, attualmente insegnante di ruolo nel licei. Redattore di Redattore di Vanilla Magazine e di Cronache Letterarie, estensore del blog L'angolo giallo, autore di diverse opere narrative, uscite in gran parte con la Placebook Publishing".

IN MORTE DI RASHIDI YEKINI

Di Roberto Cocchis

Si dice, di solito in tono di riprovazione, che i campioni sportivi sono gli eroi moderni. Come a dire che il concetto di “eroe”, ultimamente, è stato svilito al di sotto di ogni livello immaginabile. Come se la quasi totalità degli eroi venerati dai vari popoli nel corso del tempo non fossero figure posticce e costruite artificiosamente per gli interessi di qualche forma di propaganda. Ci era arrivato già Brecht, che aveva visto morire in modo atroce molti giovanissimi “eroi” quando faceva l’infermiere durante la Grande Guerra, a riconoscere che il popolo più fortunato è quello cui non occorrono eroi: ma il suo ammonimento è rimasto inascoltato.

Dunque, i campioni sportivi non sono peggio di altri. Il problema, se mai, è che sono eroi usa-e-getta, perché il rutilante universo in cui si muovono ne propone in continuazione di nuovi, e quelli vecchi finiscono rapidamente dimenticati.

Al di là della semplice apparenza, però, alcuni sportivi sono stati, in qualche misura, davvero degli eroi. Perché le loro imprese sono state occasioni, tanto effimere quanto vivide, in cui il loro popolo ha rialzato la testa di fronte al mondo. Sono dunque eroi il cui culto sarà destinato a rimanere limitato in un ambito locale, mentre altrove saranno visti con imbarazzo o addirittura fastidio. Perché, per rialzare la testa, occorre prima averla chinata: dunque, gli eroi e i popoli di cui stiamo parlando appartengono tutti a Paesi sottosviluppati. Quelli che, in un modo o in un altro, chiudiamo sempre fuori della porta.

Alcuni sono andati anche oltre la dimensione puramente sportiva. George Weah, forse il più forte calciatore della sua generazione, avrebbe potuto vincere tutto assumendo la nazionalità francese, ma ha preferito non vincere nulla con la maglia della sua Liberia, però in modo da rendere la Liberia finalmente visibile ai tantissimi che ne ignoravano l’esistenza. E, terminata la carriera agonistica, si è dato alla politica, guadagnandosi l’elezione a presidente della Liberia. Se sia destinato a essere un buon presidente, non lo sappiamo: ma le premesse ci sono tutte.

Non tutti, però, si spingono più lontano. La maggior parte di questi eroi, come abbiamo detto, consuma rapidamente la propria parabola e lascia qualche eco di sé solo tra qualche appassionato fedelissimo. A volte capita perfino che qualcuno non sia capace di sopravvivere al proprio se stesso pubblico.

Ci sono tante storie amare in questa realtà, ma nessuna è amara quanto quella di Rashidi Yekini, che ancora oggi è il nome più importante nella storia del calcio nigeriano, autore di qualche centinaio di reti in campionati di tutto il mondo (specie in quello portoghese, nel quale fu per anni la stella del Vitória Setúbal) e di 37 realizzazioni in 58 gare con la sua nazionale, tra le quali spiccano i 5 gol segnati nella Coppa delle Nazioni Africane giocata e vinta dalla Nigeria in Tunisia nel 1994 (massimo successo nella storia di quella nazionale) e il primo gol segnato dalla Nigeria ai Campionati del Mondo, nella partita vinta per 3-0 sulla Bulgaria, all’esordio nell’edizione giocata in Usa, sempre nel 1994.

Rashidi Yekini (Foto da Wikipedia)

Questo per quanto riguarda la dimensione sportiva. La gloria degli atleti, dicevamo, è effimera: alla sua ultima apparizione in Nazionale, nella partita persa per 1-4 contro la Danimarca ai Mondiali francesi del 1998, Yekini verrà inspiegabilmente fischiato perfino dai suoi stessi tifosi.

Poi c’è la storia dell’uomo.

Per certi versi, è una tipica storia africana. E raccontarla non può prescindere dalla descrizione del Paese in cui si è svolta.

La Nigeria, dunque. Un grande Paese, il più popoloso del continente, il settimo più popoloso al mondo. Ma, innanzitutto, una Nazione postcoloniale, messa insieme dai suoi ex dominatori (soprattutto il Regno Unito) più pensando ai propri interessi che alla situazione reale. La Nigeria è una federazione di ben 36 stati, abitati da etnie spesso diverse tra loro e divise da vari elementi, non ultimi i culti religiosi. Quasi metà della popolazione è musulmana, quasi metà è cristiana (i cristiani sono un po’ meno dei musulmani) ma, anche nell’ambito della stessa fede, esistono molte differenze. Tra i musulmani si possono incontrare tanto i più tolleranti e aperti, quanto i più fanatici.

La religione, tuttavia, in certi casi, rappresenta soprattutto una facciata: perché, a muovere i fili di ciò che accade, sono soprattutto le ragioni economiche. E in Nigeria ce ne sono tante. Il vasto territorio è ricchissimo di risorse, non ultima il petrolio, i cui maggiori giacimenti si trovano nell’area del Delta del Niger, a Sud del Paese. Risorse che però non appartengono per nulla alla popolazione, costretta se mai a sopportare lo scempio dell’ambiente che viene praticato per estrarle, bensì alla multinazionali, che fanno il bello e il cattivo tempo e controllano anche i governi.

Il risultato è una situazione in cui è molto pericoloso vivere, in particolare per gli intellettuali, che non sono molti ma sono sempre stati molto attivi. Nessuno ha infierito contro il padre della letteratura nigeriana, Chinua Achebe (1930-2013), che pure non si è risparmiato nel denunciare l’eredità di odio, violenza e sopraffazione lasciata dal colonialismo; ma, negli anni ’90, il dittatore Sani Abacha, un burattino mosso dalle compagnie petrolifere, si è spinto fino a condannare a morte prima il premio Nobel Wole Soyinka (1934), costringendolo a rifugiarsi negli Usa, e poi un altro famoso autore, Ken Saro-Wiwa, nato nel 1941 e impiccato il 10 novembre 1995 dopo un processo farsa per l’accusa di essersi schierato dalla parte dei movimenti ecologisti del Niger (soprattutto il “Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni”) messi fuori legge come terroristi. In seguito a questo terribile episodio, la Shell, considerata la vera regista dell’operazione, ha subito negli Usa un processo per la violazione dei diritti umani ed è stata condannata a pagare 15 milioni di dollari di risarcimento.

A situazioni come questa, il fanatismo religioso fa particolarmente comodo, perché da un lato permette di eliminare qualche fastidioso personaggio senza doversi sporcare le mani, solo indirizzando su di esso la furia del fanatici; mentre, da un altro, offre quanti spunti si vogliono per imporre leggi liberticide con la scusa della sicurezza. Dunque, prima ancora che esistessero Al-Qaeda e l’Isis, la Nigeria era già oggetto di violenze da parte di integralisti islamici. La zona Nord del Paese, a maggioranza musulmana, è la più pericolosa per i cristiani: ne sa qualcosa un altro calciatore, Christian Obodo (che ha giocato anche in Italia con le maglie di Fiorentina, Lecce e Udinese), che nel 2012 viene rapito mentre si reca in chiesa per assistere a una funzione e poi riesce fortunosamente a liberarsi e fuggire prima di essere ucciso.

Yekini è musulmano, ma è lontano anni luce da ogni idea di violenza. Quando giocava, prima di scendere in campo, recitava sempre una preghiera ad Allah chiedendo che nessuno si facesse male. La sua città, Kaduna (dove è nato nell’agosto del 1962 o nell’ottobre del 1963: le fonti non sono concordi), si trova a Nord, in una zona in cui arrivano i tentacoli della setta integralista Boko Haram, la più pericolosa di tutte. A carriera finita, prova brevemente a viverci, poi capisce che non è troppo rischioso e se ne va un po’ più a Sud, a Irra, in una zona a prevalenza cristiana, dove lui e la sua numerosa famiglia (la madre, uno zio, l’ultima delle sue tre mogli e i suoi tre figli) sembrano perfettamente integrati.

Dopo qualche tempo, però, lascia la famiglia e se ne va, da solo, ancora più a Sud, a Ibadan, la seconda città più popolosa del Paese. Non sta scappando, ma solo cercando un modo di garantirsi la vecchiaia investendo i risparmi. Ha un amico orafo che si chiama Ibrahim e, insieme, aprono una gioielleria che, all’inizio, sembra andare benissimo. Poi succede qualcosa che non è stato mai completamente spiegato. Nel 2008, il negozio subisce una rapina a mano armata. Yekini non c’è, ma c’è Ibrahim, che resta ucciso. La merce e la cassa spariscono completamente, né verranno mai più ritrovate. Il colpo non è opera di balordi ma di una banda di professionisti ben organizzata. Le indagini di polizia non vengono a capo di nulla.

Yekini ha perso tutto ma ha subito soprattutto un pesantissimo contraccolpo psicologico. Resta a Ibadan, ufficialmente per rifarsi una vita, di fatto perché non riesce a reagire. Arrivano segnalazioni alle autorità: l’ex campione va in giro come un barbone, compra cibo da venditori ambulanti in strada, fa i suoi bisogni nei cespugli. Si dice che sia affetto da depressione, disturbo bipolare e altre patologie neurologiche. Qualcuno dovrebbe intervenire, ma non lo fa nessuno. I parenti lo convincono a farsi curare da santoni e stregoni, ma il risultato di queste “terapie” lo lascia più prostrato di prima. Nella primavera del 2012, viene finalmente ricoverato in un ospedale di Ibadan, ma ormai la situazione appare disperata. Muore il 4 maggio di quell’anno. Neppure il certificato di morte fa chiarezza sulle causa di questa fine. Il giornalista italiano Luigi Guelpa, esperto di cose africane, ipotizza che fosse affetto dalla Sla, come tanti altri calciatori.

Oggi, chi cerchi Yekini sul web troverà articoli e video, soprattutto in Inglese, che riprendono la denuncia di sua madre per l’indifferenza delle autorità e lo sfogo dell’ex compagno di Nazionale Sunday Oliseh sul “tradimento” del popolo nigeriano verso il suo più importante eroe sportivo. Resta il fatto che, in una realtà come quella nigeriana, la vita è una scommessa e la morte è sempre dietro l’angolo. A soli 25 anni da quel 1994 in cui la Nigeria vinse la Coppa delle Nazioni Africane e poi giocò un eccellente Mondiale (eliminata piuttosto fortunosamente dall’Italia, come molti ricorderanno) sono già cinque i membri di quella squadra a essere scomparsi prematuramente: oltre a Yekini, Stephen Keshi (deceduto per un attacco cardiaco a 54 anni nel 2016), Wilfred Agbonavbare (morto di cancro nel 2015 a 48 anni), Uche Okafor (ucciso in circostanze mai chiarite negli Usa, dove si era trasferito, nel 2011, a 43 anni) e Thompson Oliha (stroncato dalla malaria a 44 anni nel 2013). Per la superstizione locale, sempre molto viva, il destino di quella squadra era gravato da una maledizione.