Pietro Romano (Palermo, 1994) è laureato in Lettere. È autore di due raccolte di poesia, dal titolo Il sentimento dell’esserci (Rupe Mutevole, 2015) e Fra mani rifiutate (I Quaderni del Bardo, 2018). I suoi versi sono apparsi in riviste nazionali e internazionali e tradotti in greco e spagnolo. Attualmente, frequenta il corso di Laurea Magistrale in Italianistica presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna.

IL CONTRASTO FRA STORIA E NATURA IN FIORI ESTINTI DI MATTIA TARANTINO

Di Pietro Romano

Per schivare la propria derelizione, il soggetto deve tentare di ricostruire l’orizzonte che lo ha determinato. Il problema dell’ereditare, di cosa significhi ereditare, per l’uomo, reca con sé il dolore di uno stigma che vuole farsi «lingua ». La lingua, allora, si delinea come uno degli strumenti fondamentali per rimediare, in parte, all’insensatezza in cui l’essere umano si vede precipitato. Fiori estinti di Mattia Tarantino (Terra d’Ulivi, 2019) rivela l’insolita propensione a ricercare, come direbbe Platone, un «principio del divenire» a cui attribuire il movimento di tutte le cose, facendo uso di un linguaggio, quello sacro, rifunzionalizzato nell’ottica in cui solamente la parola può condurre a ipotesi di senso.

Così, il sacro viene, per così dire, spogliato di ogni sua attribuzione culturalmente connotata per rappresentare, attraverso una scrittura oracolare, meccanismi di deiezione, disgregazione o rinascita regolamentati dalle leggi stesse del divenire: “A Ponente sta la tana della luce/ il dolore delle stelle che corrompe/la cesura tra le erbacce in comunione/per lo sterco, quale ostia capovolta./Al cerchio che fu mantra l’obbedienza/degli angeli delira. Il poeta sembra quasi riconoscere, quale origine delle cose, una corruzione che le dilania e le investe, ponendosi essa stessa come fondamento primo del linguaggio: “Nel mio avvento c’è l’astro nerissimo/che ordina e sparge:/ non c’è voce a chiamare le gazze/non c’è luce a bruciare le vene./ Tradiamo la lingua crollata/all’ultima vocale dell’ultimo/verso; tradiamo/l’invidia del seme corrotto”. Come spiega Giorgia Esposito all’interno della sua post-fazione, i fiori costituiscono «richiami, apparizioni senza durata e senza difesa contro la furia marziale del mondo». Pertanto, solamente ascoltando l’eco della non-permanenza, Tarantino può tentare la risoluzione delle proprie istanze di senso per dispiegare al lettore l’audacia di una rinascita che trae forza dal dolore di una simile operazione: “Vengo a offrirvi sangue e luce in quest’inverno/che non strazia né profana. / È bevendo il vino basso che ha sputato/il salvatore, è solcando/ la soglia che sta al templio come al templio/le mie ossa poverissime che sventro/l’elemosina e la quercia./Nella quercia trovo il fiocco/nerissimo che finì il mio angelo:/ adolescenza degli angeli l’atroce/cappio che li appende al cielo.

Mattia Tarantino

Nella poesia di Tarantino, la verticalità offende e marchia ciò che appartiene alla terra: “(…) Piove in queste mura, e crocifisso/all’acqua la profano:/ l’orina sta nel calice ma non/ corrompe né sangue né salvezza./Questa rondine oltraggia/le rose (…). Allo stesso modo, il carattere finito delle cose terrene è un oltraggio al tempo, e perciò l’attimo disgrega e uccide: (…)” nell’attimo che accede tutto/ciò che è vivo va azzannato”. In un simile contesto, dove ogni cosa si rigenera secondo irrefrenabili meccanismi di nascita e corruzione, sembra al contempo foriera di una maledizione che marchia e supplizia tutte le cose esistenti: non è certo nuova l’acqua/ostinata in cui amo:/ annegheremo nel sangue posto tra noi alla prima iride; verremo/nuovamente al mondo, nuovamente/alla parola, e recheremo/il nome e la sciagura al nostro inverno. Nei meccanismi di rinascita si protrae inarrestabile il segno di questa maledizione: il sangue urta il sangue, e il bambino/è già messaggero da altre/terre, altri verbi: è già nell’angelo/. Ho pronunciato la parola che fonda/ i fiori, ho convertito/ gli uccelli che annunciano l’inverno:/c’è qualcosa nel mio nome/che lo strazia e lo maledice. L’angelo figura come colui che nel conflitto annuncia il rovescio e apre al possibile. Ma offrirsi all’insperato e all’incognito vuol dire anche dover constatare che l’attimo in cui avveniamo immola sempre qualcuno o qualcosa al possibile: “ad annunciare la parola sta la cenere/e non c’è stanza che la accolga:/ la luce ha imprecato/ mordendo le mie vene; ha cucito/nell’ustione l’avvenire della pace./Eppure un fuoco, pronunciando/da una sillaba remota questa stasi,/ci rimette ad Alessandria/: ogni voce che ci fonda ci disperde”. La poesia di Tarantino offre, allora, una rappresentazione inquietante del confronto fra storia e natura, disvelando la subordinazione dell’uomo rispetto alle forze disgreganti della materia.

Mattia Tarantino è nato a Napoli nel 2001. Co-dirige Inverso – Giornale di poesia; collabora come traduttore con Iris News – Rivista internazionale di poesia. Fa parte della redazione di Menabò – Quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria e di Bibbia d’Asfalto – Poesia urbana e autostradale. È presente in diverse riviste e antologie, italiane e internazionali. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue. Ha pubblicato Tra l’angelo e la sillaba (Terra d’ulivi, 2017) e Fiori estinti (Terra d’ulivi, 2019)

Fiori estinti Book Cover Fiori estinti
Mattia Tarantino
Poesia
Terra d'ulivi
2019
148 p., brossura