Scrittore e giornalista salentino. Il suo ultimo libro è Impegno e disincanto in Pasolini, De Andrè, Gaber e Rino Gaetano, uscito per I Quaderni del Bardo Edizioni

Di Annibale Gagliani

Un sentimento naturale, perforante perché struggente. Tutti i nomi di un padre di Nicola Vacca (L’ArgoLibro, Agropoli, 2019) racchiude nei suoi versi l’inquieta nostalgia di chi dibatte con l’inconscio a ogni chiaro di luna, a seguito della mancanza più fragorosa per il genere maschile: quella del padre. Componimenti che accendono l’invidia di chi non ha superato il complesso d’Edipo, ispirato al mitologico e più famoso scontro padre-figlio dell’Antica Grecia. Laio, re di Tebe, a seguito di una profezia dell’Oracolo di Delfi, che gli preannunciò una morte per mano del suo primogenito se avesse permesso alla moglie Giocasta di metterlo al mondo, decide, dopo il parto, di portare il neonato, Edipo, sul Monte Citerone e di abbandonarlo. Ritrovato da un pastore, il pargolo si salva, e dopo un cammino di vita glorioso, da adulto ritrova Laio in battaglia, uccidendolo. Diviene di conseguenza il nuovo sovrano di Tebe, con in dote l’amore della madre biologica, Giocasta. Il mito è ripreso da Sigmund Freud per spiegare l’importanza del rapporto tra figlio e genitore dello stesso sesso durante la formazione psicologica dell’individuo.

Nicola Vacca ha palesemente vissuto un rapporto leale, più che mai affettuoso. Non necessita di esorcizzare la figura del padre, ma di inebriarsi delle venature psicanalitiche di un uomo semplice, il suo modello, che è diventato poesia nel pieno dell’ultimo respiro. Il poeta pretende le idee del genitore, emulandone la dolcezza. Indossa le sue cose, vestendo una filosofia quasi estinta nell’Italia popu-consumista. Solo così sente di afferrare un cuore-modello posizionato dietro la nuca nelle notti di scrittura avvelenata, al chiaro di luna, sul mare salernitano e sull’omologo barese.

Nello specchio a muro

il suo profumo preferito

gli oggetti per la rasatura

e tutto il necessario

con cui curava la sua persona.

Oggi ho indossato la sua fragranza

mi sono fatto la barba con il suo rasoio

ho toccato le cose

con cui ogni mattina mio padre

dava il buongiorno al mondo.

Sono uscito di casa

avendolo addosso.

Così sarà per sempre.

Questi versi ripercorrono i passi dei grandi figli che hanno superato i loro padri bevendo l’amaro calice dell’assenza e indossando il loro essere. Basti pensare ad Alessandro Magno, che dopo aver assistito durante un banchetto all’assassinio del padre, Filippo II, re di Macedonia, per mano di una guardia traditrice, diviene condottiero unendo i greci e sfidando l’impero persiano nell’impresa di conquista dell’Oriente che dal 300 a.c. resta senza eguali. Basti pensare a Eduardo De Filippo, che in pieno Novecento indossa le vesti, la gestualità e il linguaggio del padre, Eduardo Scarpetta, fondatore della Commedia dell’Arte. Un passaggio di consegne che annichilisce l’assenza. Una sovrapposizione fisica e intellettuale naturale, struggente perché perforante. Per Nicola suo padre è il Cat Stevens di Father And Son. Prodigo di consigli, di dolori palpabili, di vita realizzata senza ferire nessuno. La mancanza è soffocante, soprattutto nelle traversate giornaliere: il poeta si affida alle donne della sua vita: Michelina e la Poesia – con la “p” maiuscola – per vincere il buio! Il verso cioraniano di Nicola, libero, talvolta eretico, regala a sprazzi un anelito di luce, che è amore, soltanto amore, dannatamente amore. Un sentimento indifeso carpito dal padre e che scioglie rapidamente in un abbraccio.

Teniamoci stretti

Perché la storia dei baci finisce.

Teniamoci stretti

perché siamo polvere.

Teniamoci stretti

sentiamoci addosso

perché in qualsiasi momento

la tenerezza può essere recisa dal dolore.

Teniamoci stretti perché la vita

è crudele nel toglierci la vita.

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