Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Di Graziella Enna

Il cammino terreno di Dante viator termina alla sommità del Purgatorio quando egli si ritrova nuovamente solo poiché Virgilio l’ha esortato a proseguire ed agire liberamente ora che si è rinnovato nell’animo e scrollato dai pericolosi istinti irrazionali visto che ha compiuto la maggior parte del suo itinerario di purificazione. Animato da un nuovo spirito, si inoltra in una nuova selva, ma non è più la sinistra, oscura ed inquietante selva del principio del suo viaggio, presaga di morte, quando il Poeta era in preda ai bassi istinti, questa volta è la selva del paradiso terrestre, viva, ubertosa, lussureggiante, profumata e lui è in possesso delle piene facoltà razionali nel luogo dell’innocenza ritrovata. Qui Dante incontra Matelda, una delle figure più enigmatiche della Commedia, di cui proverò a tratteggiare la figura. E’ il XXVIII canto.

Desideroso di esplorare la foresta divina folta e rigogliosa che smorzava la luce del giorno, senza indugio si inoltra nel terreno da cui scaturisce un piacevole olezzo. Soffia un dolce venticello che mai non muta né intensità né direzione che fa appena ondeggiare le fronde verso ovest, dove la montagna sacra del Purgatorio proietta l’ombra del primo sole, ma il lieve moto non impedisce agli uccellini di svolazzare e cinguettare, ma fa da sottofondo al loro canto, così come accade nel lido di classe quando Eolo libera lo scirocco. I passi lo avevano già introdotto all’interno dell’antica selva quando un piccolo rivo che piega le erbe sulle sue sponde gli impedisce il cammino. Le acque limpide presenti sulla terra sembrerebbero torbide confronto a quella così cristallina che lascia trasparire il suo fondo quantunque scorra scura sotto la fitta vegetazione e non lasci penetrare i raggi del sole e della luna. (Si tratta del fiume Lete, nome di etimologia greca che significa oblio che ha la facoltà di cancellare il ricordo dei peccati). La selva così descritta non è altro che un locus amoenus della tradizione classica pagana che però si arricchisce di significati morali e religiosi essendo il luogo dell’innocenza primordiale data da Dio che venne però perduta dai nostri progenitori è che può essere almeno in parte recuperata con l’esercizio delle virtù morali. E’ evidente anche il retaggio del mito dell’età dell’oro come sarà chiaro più avanti.


vv.1-33

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno, 3

sanza più aspettar, lasciai la riva,
prendendo la campagna lento lento
su per lo suol che d’ogne parte auliva. 6

Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento; 9

per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte; 12

non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte; 15

ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime, 18

tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
quand’Ëolo scilocco fuor discioglie. 21

Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch’io
non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi; 24

ed ecco più andar mi tolse un rio,
che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo. 27

Tutte l’acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde, 30

avvegna che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetüa, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna. 33

Dante si ferma ma con lo sguardo ammira la varietà dei rami fioriti (“freschi mai” in riferimento alla festa di calendimaggio quando a Firenze si ponevano rami fioriti sulle imposte delle case) e gli si presenta davanti agli occhi, così come succede quando un’apparizione improvvisa suscita stupore e ci distoglie dagli altri pensieri, una donna che incedeva tutta sola cantando e cogliendo i fiori più belli. Si tratta di Matelda, uno dei personaggi più enigmatici della Commedia, dall’identificazione problematica (per alcuni si tratta di Matilde di Canossa, per altri di una donna della Vita nuova, per altri di monaca benedettina tedesca), ma che invece è una figura simbolica che rappresenta l’innocenza primordiale, la condizione di perfetta felicita’ dell’uomo, immune dal peccato, nel momento in cui viene collocato nel paradiso terrestre. Il nome Matelda potrebbe essere l’anagramma di “ad laetam”, per indicare la donna che conduce Dante da colei che e’ lieta, cioè Beatrice. L’apparizione e’ prettamente stilnovistica, diventerà un topos già con Petrarca, sembra una donna angelo, si staglia in mezzo ai fiori che coglie mentre canta, le sembianze rivelano un volto innamorato. Dante le si rivolge dicendole che nel suo volto, che è specchio dell’anima, si dipinge l’amore divino e la prega di avvicinarsi al fiume per udire che cosa canti. Dante associa la figura della donna all’immagine d Proserpina, figlia di Cerere, rapita da Plutone mentre coglieva fiori nell’assolata pianura siciliana (dalle Metamorfosi di Ovidio). Matelda si avvicina a Dante voltando i piedi sui fiorellini rossi e gialli, leggiadra come una donna che danza e con gli occhi bassi per il pudore così da far udire il suo canto e le sue parole. Quando solleva lo sguardo, in prossimità delle rive del fiume, è così luminoso come neppure quello di Venere quando fu trafitta involontariamente da Cupido. (La fonte è sempre Ovidio, Metamorfosi). Lei sorrideva intrecciando fiori in quel luogo dove tutto cresce spontaneamente e solo il fiume li separa: Dante lo odia più di quanto Leandro odiò l’Ellesponto che lo separava dall’amata Ero quando, attraversandolo a nuoto annegò. (Mito riportato da Ovidio nelle Heroides). Dante aggiunge anche che il mar non s’aperse alludendo all’episodio biblico di Mosè e del mar Rosso.


(34-75)
Coi piè ristetti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion d’i freschi mai; 36

e là m’apparve, sì com’elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare, 39

una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’era pinta tutta la sua via. 42

“Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
che soglion esser testimon del core, 45

vegnati in voglia di trarreti avanti”,
diss’io a lei, “verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti. 48

Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera”. 51

Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette, 54

volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli; 57

e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che ’l dolce suono
veniva a me co’ suoi intendimenti. 60

Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono. 63

Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume. 66

Ella ridea da l’altra riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che l’alta terra sanza seme gitta. 69

Tre passi ci facea il fiume lontani;
ma Elesponto, là ’ve passò Serse,
ancora freno a tutti orgogli umani, 72

più odio da Leandro non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido,
che quel da me perch’allor non s’aperse. 75

Matelda inizia a parlare e sorridere di gioia dicendo che siffatto luogo, creato da Dio come dimora naturale dell’uomo, suscita stupore ma il salmo “Delectasti” può fornire una degna spiegazione (in tale salmo si esulta per la bellezza del creato). Continua poi con una descrizione, che si potrebbe definire naturalistica, ma anche teologica, del luogo. Dante infatti esprime un dubbio, cioè l’esistenza dello scorrere delle acque e dello stormire delle fronde in assenza di perturbazioni atmosferiche come vento e pioggia. Dio aveva creato questo luogo per l’uomo come anticipazione del luogo eterno, ma l’uomo per sua colpa vi dimorò ben poco e cambiò l’onesto piacere e la dolce gioia in pianto e sofferenza. Affinché non ci fossero perturbazioni atmosferiche fece sì che il monte si innalzasse verso il cielo e spiega che la brezza è generata dal movimento circolare dell’atmosfera dovuto al moto dei cieli. Le piante, mosse dall’atmosfera hanno tanto potere da impregnare l’aria delle loro virtù generative che si diffondono anche sulla terra dando luogo alla varietà di piante, perciò non ci si deve meravigliare se nascono delle piante senza che siano state seminate. Nel paradiso terrestre e’ pieno di tutti i tipi di semi e di frutti che sulla terra non si colgono. Le acque che vi scorrono non nascono da sorgenti alimentate dalle piogge e non sono come i fiumi terrestri che cambiano la loro portata ma sgorgano da una fonte immutabile ed inesauribile ma dalla volontà di Dio che ne rigenera quanta ne versa nei due fiumi presenti. Un fiume si chiama Letè e l’altro Eunoè ( dal greco, significa buona mente, buon ricordo) ma uno da solo non fa effetto, bisogna bere l’acqua di entrambi: il primo e’ il fiume dell’oblio, che cancella il ricordo dei peccati, l’altro, dal sapore inimitabile, fa tornare alla memoria il bene compiuto.

vv.76-133
“Voi siete nuovi, e forse perch’io rido”,
cominciò ella, “in questo luogo eletto
a l’umana natura per suo nido, 78

maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto. 81

E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta
ad ogne tua question tanto che basti”. 84

“L’acqua”, diss’io, ” è l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede
di cosa ch’io udì contraria a questa”. 87

Ond’ella: “Io dicerò come procede
per sua cagion ciò ch’ammirar ti face,
e purgherò la nebbia che ti fiede. 90

Lo sommo ben, che solo esso a sé piace,
fé l’uom buono e a bene, e questo loco
diede per arr’a lui d’etterna pace. 93

Per sua difalta qui dimorò poco;
per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco. 96

Perché ’l turbar che sotto da sé fanno
l’essalazion de l’acqua e de la terra,
che quanto posson dietro al calor vanno, 99

a l’uomo non facesse alcuna guerra,
questo monte salìo verso ’l ciel tanto,
e libero n’è d’indi ove si serra. 102

Or perché in circuito tutto quanto
l’aere si volge con la prima volta,
se non li è rotto il cerchio d’alcun canto, 105

in questa altezza ch’è tutta disciolta
ne l’aere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perch’è folta; 108

e la percossa pianta tanto puote,
che de la sua virtute l’aura impregna
e quella poi, girando, intorno scuote; 111

e l’altra terra, secondo ch’è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna. 114

Non parrebbe di là poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi s’appiglia. 117

E saper dei che la campagna santa
dove tu se’, d’ogne semenza è piena,
e frutto ha in sé che di là non si schianta. 120

L’acqua che vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch’acquista e perde lena; 123

ma esce di fontana salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende,
quant’ella versa da due parti aperta. 126

Da questa parte con virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
da l’altra d’ogne ben fatto la rende. 129

Quinci Letè; così da l’altro lato
Eünoè si chiama, e non adopra
se quinci e quindi pria non è gustato: 132

a tutti altri sapori esto è di sopra.

Matelda a questo punto fornisce a Dante, a Stazio (che li aveva seguiti), e Virgilio, un ultimo corollario (termine mutuato dalla matematica e dalla filosofia che indica un aggiunta a qualcosa di già dimostrato), sebbene la sete di conoscenza di Dante sia stata già appagata, ma non per questo le sue parole saranno meno gradite. I poeti antichi, che cantarono la mitica età dell’oro e la felicità primordiale dell’uomo, forse lo sognarono nelle loro fantasie poetiche (in Parnaso). Lì i progenitori del genere umano conobbero l’innocenza, lì e’ sempre primavera e ci sono frutti di ogni tipo: questo e’ il nettare di cui tutti parlano. Dante si volta verso i due poeti che sorridono nell’udire l’ultima parte del discorso di Matelda, poi rivolge di nuovo lo sguardo verso di lei. 
Il sorriso di Virgilio e Stazio e’ dovuto al riconoscimento da parte di Matelda della loro grandezza poetica, in quanto avevano descritto l’età dell’oro prefigurando il paradiso terrestre, ma nello stesso tempo la loro poesia risulta limitata perché è assente la fede.

E avvegna ch’assai possa esser sazia
la sete tua perch’io più non ti scuopra, 135

darotti un corollario ancor per grazia;
né credo che ’l mio dir ti sia men caro,
se oltre promession teco si spazia. 138

Quelli ch’anticamente poetaro
l’età de l’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro. 141

Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice”. 144

Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto
a’ miei poeti, e vidi che con riso
udito avëan l’ultimo costrutto; 147

poi a la bella donna torna’ il viso.

In conclusione si può evincere che nella Commedia la maggior parte dei  personaggi sono realmente esistiti, alcuni vivono nelle pagine immortali  dei  miti,  ma Matelda non può essere l’anima di una persona, che, essendo beata, non potrebbe dimorare stabilmente in un luogo di temporanea purificazione come il paradiso terrestre, anziché nel Paradiso vero e proprio. Dunque e’ un’immagine simbolica e rappresenta la perfezione propria dell’uomo prima del peccato originale.