Daniela Ginex vive e lavora a Catania. Ha collaborato con la rivista Paidòs, dove ha tenuto una rubrica umoristica. Ha pubblicato con Algra dei racconti in antologia (L’arte di perdere, Albe, Zenith, Ci rifaremo vivi, All’imbrunire, L’inseguimento) e il romanzo Divagazioni amorose.

La marcia di Asabe

Racconto di Daniela Ginex

L’estate si stava indebolendo e di lì a un paio di settimane gli stabilimenti balneari avrebbero chiuso. La gente sarebbe tornata a casa dopo le ferie e le spiagge della riviera romagnola si sarebbero spopolate.

Asabe camminava sulla spiaggia, con il suo borsone carico di merce da vendere agli ultimi bagnanti.

Una donna lo fece fermare. Voleva degli occhiali da sole, non si decideva mai. Se ne provò alcuni, poi provò a tirare col prezzo. Ormai c’era abituato, faceva parte del gioco per loro.

Sotto l’ombrellone c’era una bambina di pochi anni che cominciò a lamentarsi. La donna la prese in braccio e le diede il ciuccio. La bimba poggiò la testa sulla sua spalla, gli occhi assonnati. La donna protestò, chiedendo alla piccola di stare buona mentre provava gli occhiali. La bimba piagnucolava.

Doveva avere più o meno l’età di Aisha.

Asabe rimise la sua roba in spalla e riprese il cammino. La sabbia era infuocata e l’aria era tremolante sopra la battigia. Camminava e camminava, come faceva ogni giorno. Ora era a Gabicce Mare. Dicevano che era una bella spiaggia, ma a lui sembravano tutte uguali, con quegli ombrelloni schierati in fila, la musica a palla e il rumore dei tamburelli.

La risata di un bambino.

Camminava fino a quanto il sudore non gli colava sugli occhi.

Poi il sole tramontava, lui si comprava una piadina e tornava in spiaggia a dormire.

Aveva imparato a dormire in spiaggia, con il caldo si poteva fare. Bisognava solo stare attenti a non farsi notare troppo. E non stare sempre nello stesso posto, perché c’erano tanti di quegli stronzi in giro che andavano a divertirsi dando fuoco a negri e barboni, come era successo al povero Idris.

E veniva la notte, e l’unico modo di farla passare era la stanchezza. Crollava sulla sua coperta, e si svegliava solo alle prime luci dell’alba.

E riprendeva a camminare.

L’estate sarebbe finita. E lui sarebbe dovuto tornare a Modena. Jalil gli aveva detto che lo prendevano, dove lavorava lui. Poteva anche prendere una stanza nella sua casa, c’era uno che se ne andava in Germania.

Se le cose fossero andate diversamente, anche lui sarebbe stato in Germania, ora. Raccontavano che c’erano delle case con il riscaldamento e l’ascensore, e nel quartiere c’era il supermercato e tutto quanto e si poteva andare dal dottore quando si stava male. Molti della famiglia di Asabe si erano sistemati lì, in quella città dove c’era un fiume.

Asabe pensò a quello che c’era al paese e rivide Latifah che ci si bagnava i piedi e poi immergeva i panni per lavarli, e si girava verso di lui e gli sorrideva.

Si alzò e riprese a camminare. Il sole non era ancora sorto, ma l’aria era già spessa e pesante. Si era svegliato subito, appena aveva iniziato a fare quel sogno. Nel sogno Latifah era ancora florida e sorridente.

Asabe camminava.

Avrebbe dovuto comprare delle scarpe, per l’inverno. Non ci sarebbe andato, a Modena. Non sapeva ancora dove sarebbe andato, dopo le spiagge. Né che cosa avrebbe venduto, quando i secchielli e le fasce colorate per i capelli non le avrebbe volute più nessuno.

Si voltò verso il mare. Il mare maledetto. Gli aveva preso tutto.

Signore, perché non hai preso me?

Asabe aveva smesso di pregare, e l’unico momento che cercava Dio era per mostrargli i pugni minaccioso, o quando crollava in ginocchio per la stanchezza della disperazione.

Ma Dio non aveva più coraggio di lui.

Continuava a camminare. I bagnanti si sistemavano sotto gli ombrelloni, toccavano l’acqua rabbrividendo, si stiracchiavano.

Una coppia giovane, lei aveva un bambino al collo. Lo depositavano con cautela su un lenzuolino all’ombra. Dormiva ancora.

Anche Aisha sembrava che dormisse. Fra le sue braccia era sempre leggera come una farfalla, e invece quel giorno pesava come un macigno. Era così bagnata che anche i vestiti di Asabe si erano inzuppati.

Camminò più veloce. I primi tempi gli erano venute diverse vesciche ai piedi, ma anzi il dolore lo distraeva dalla voce di Latifah. Latifah se n’era andata, ma lui sentiva ancora il suo lamento.

Signore falla smettere, rendimi cieco o sordo, se non vuoi prendermi.

Una coppia anziana sistemò le sdraio proprio vicino alla battigia. Non dovevano essere italiani, parlavano un’altra lingua. Non che l’italiano lui lo capisse. Solo le parole indispensabili. E non aveva nessuna voglia di impararlo. Gli bastavano le tre lingue che sapeva già.

Anche se in nessuna di quelle lingue c’erano le parole che cercava.

Chissà se ora Latifah aveva trovato la sua pace, con sua madre e le sue sorelle. Gli aveva risposto al telefono una volta sola. Per dirgli che stava bene e che doveva stare tranquillo.

E poi il sole diventava crudele, si alzava nel cielo feroce, arroventava la sabbia. C’era una spiaggia dove un gruppo di ragazzi faceva la guardia contro gli ambulanti, e c’era stata una polemica che era finita sul giornale.

Meglio tenersi alla larga.

Asabe decise di prendere il treno, di andare più a nord. Contò i soldi in tasca.

La stazione era poco distante. Mise le sue carabattole nel borsone e se lo caricò sulle spalle.

Piccolo angelo del cielo, che tu possa correre nei prati dorati e bere alle fontane di miele.

Asabe camminava.

L’immagine di copertina è Corsa lungo la spiaggia 1908, Joaquìn Sorolla