Piero Dal Bon è poeta, saggista, critico letterario. Tra le sue pubblicazioni, volumi anche collettanei su Volponi, Pirandello, Papini, Pavese, Ungaretti, Primo Levi e testi di Moresco di cui ha fatto traduzioni e scritto prefazioni e postfazioni

All’amico Ardola, falotico di

sdrucciole 

Riverso, di

traverso, (ma ora mi raddrizzo,

tremulo o

eretto), seduto e spampanato di

capricci, ma friggente il sedere

bruciante di cinetiche erranze (si

raggrumano, flebili e frenetiche,

sullo spigolo dello zigomo afono),

ora, dico poco fa, (l’ora è il poi,

serve dirlo, o siamo sciumuniti?)

mi sono dettato, camminando,

ricurvo

sotto i moniti dei riccioli, residui

elettrizzati della beatitudine

angelica dalla quale provengo (era

l’angelo, mi dissero, della realtà

colui che visitava; e ancora

m’allontana con schifiltose ali

mosse e

delicate scosse) mi sono

compitato, cadenzata la mano, la

espositiva

secchezza essenziale di un inizio,

uno scrivi di questo-del mormorio

sinistro del vocifierio ridesto, che

mi solletica e tortura-aghetti

di pungenti nonnulla che raspano,

e grattano- cigolii della carcassa

dell’io destrutturato, stridori e

clangori vari ma poco eventuali di

intimo fracasso(la citazione, “scrivi

mi dico odia chi con dolcezza

guida al niente”, ha attraversato lo

spazio algido e neutralizzante

che sta fra l’esperienza di un

mollusco, trepida e fresca, e la

scrittura, timidamente vizza, e mi

ha malignamente deviato su false

e

querule piste; torto verso la

semplice aderenza al palpitare del

bislacco vissuto. Non so. Voglio

impararla questa torpida

insipienza,

del non so…. Mi rallento, e il

veleno raggelante del fiatone- piedi

che scivolano sopra il tapis roulant

della vita vera-quella che svelle

svela spella si sottrae ma non

rivela mi attraversa, con punture di

annichilimento e sparizione,

individuale sociale storica

epocale, con

il murmure del niente, del futile, del

rigirio fatale sull’asse

putrefatto dell’uguale e identico e

infernale…

… rinsavire dalla fuga introflessa

nell’introversione accerchiante

dell’ovale cranio scardassato-,

acritico, ed arreso dopo

l’aereiforme

tip tap delle zampe dell’egorrea

sciammannata e sfiatata, il fuoco

di

artificio del tuo ingegno

postsacrificale, eterodosso,

adesso, ma

ossesso di diligenza nella

punteggiatura muta che non

insegue come

dovrebbe la trota del quid…

…. lasciare sospesi, striduli e

storditi, genuflessi e attraversati

tutti i mondi, compresi i pianeti

disorbitati, che fiancheggiano i

filari delle costellazioni di un

cosmo che aspettava il tuo arrivo

messianico per sbrecciarsi, come

la corteccia di un fico mèzzo-

(Vivacchiava, lui, inesploso e

reiterativo, obliquo e disfatto nella

sua mesta tetraggine di sciupii

ciclici e involuti…l’eccentrico

sfumante che ridesta il clamore

tellurico supermondano,

planetario,

dell’essere, sollecitato fuori dalla

sua mansuetudine parmenidea)

Ecco, ora è il rutilante sollevarsi

dell’immaginazione (il divieto ci

si mette dimezzo): manca la myse

en abyme e l’austera maschera

dell’obbedienza, si protende a

concludere (la metafora del

significante catastrofe, l’apoftegma

erotico che stringe gli

sconclusionati rami del senso, ed

unifica nell’immagine redentrice di

un destino, una fatalità conchiusa)

è lo sventrarsi

dell’individualità socchiuse che

auspichi, la magmatica

sovversione

del geometrico lugubre ed odioso

ordine cosmico, il legiferante e

circolare ripiegamento della vitamorte nelle suo ticchettio di norme

e scansioni, il conchiudere e

vietare l’aperto del nesso e

dell’allaccio, in nome di un

travolgimento scosso, un

impennato

tra-scia-manare che inonderebbe

le secche di te assenti di un

deserto

nientemeno che stellare, di globuli

rossi, di galassie irridenti

irredente di allontanamenti,

luminosi e fatiscenti…

 Ora dimentichi la luna

che mozza invita a, eden di

tremolantii infanzie gioiose e

balbuzienti, metamorfosiimmersioni dimentiche, benesseri

esultanti e

promiscui di mare sale brividi

nuotanti, ma ti ridi addosso, di

queste

innocenze desideranti, vecchio

retore dell’impossibile come ti

sbraita addosso risentito il

saxofono, magnificente e lucente a

perdifiato, del ih eh uh oh ah e

dappertutto, ma giammai sarai

così,

olimpico o arrogante…

 …. esigo un rude schianto, un

sanguinare ulceroso, un lavico

lavacro di lavande lattiginose, una

lattescescente e grumosa

emersione

di melodismi ondivaghi e feroci,

acuti di soprani, verticalizzanti

ebrezze di starnuti: molli intensità

di sonorità di saxofoni e

tromboni, sfrecciate ustioni di

gabbiani felici, e feriti, di luce,

strazi estesi di nostalgie e futuri,

inazzurrimenti euforici di svoli

interstellari, fusioni olistiche di

atomo in atomo, trionfali

dimenticanze, glorie astruse e

impèrvie, semi di verdeggiante

emozione

da tuffo nelle morbidezze

schiumose e tempestose (oh

impeti oh

sobbalazi, del cuor-cuore)

nell’ondoso mareggiare della

materia,

spirito-anima, pschicamente

alimentata di dialettiche e umidori:

sabbia conchiglie chiglie e

incagliati calli del caos che, sédulo,

sollecita e non sostiene (appoggio

il calice del belvedere, allora: e

mi rimoltiplico e arrotolo, oh tu

vagheggiato di un dialogante

scalare

i gradini di un, oh uh, sublime,

contraffatto di tagli di g- avanzo o

trepido indietreggio,

m’apparto o diparto, mulinare

arroventato di dubitosi chiodi del

laminato intelletto, che implacato,

sminuzza e avvelena. Apologizzo il

dasein, la vernunft, il verderame

dell’opacità dei dividendi, o

celebro il tagliato cateto del

cerebralismo: m’espongo, dunque,

io

fatuo e impolverato, di cimici e

scismi, scissioni da corpi deceduti,

alle correnti e gli spifferi del

divenire, lo smuoversi

postistituzionale della

commozione, del rabbrividito sfarsi

di una

temporalità ominosa ma creaturale

ed indecisa? E se lo strame fosse

rame, e l’oro di adorazione solo e

roco, fioco appena, ma, bada, di

fuoco…

L’immagine di copetina è Mare in tempesta di Claude Monet preso da Finestre sull’Arte