Giacomo Colomba Web writer, scrittore, viaggiatore e poeta, Giacomo Colomba è uomo di vasta cultura e ancor più vasta curiosità. Ricercatore indipendente, atipico e poco convenzionale, decide di lasciare gli studi a 15 anni per mettersi in viaggio tra Europa, Africa e Asia, soprattutto in India, dove da anni vive e lavora e della quale ha una profonda conoscenza. È articolista per la De Agostini, le sue poesie in italiano ed in inglese sono state pubblicate in varie antologie, ed è ghostwriter e scrittore di viaggio su commissione. Ha autopubblicato Le Sette Tetradi dello Yoga Integrale, in procinto di uscire in Italia,

Vivo o almeno sembra,

oscilla il ricordo

del gigaro scuro.

Odora di virgo

sopita sui fiori

il cosmo del mio corpo,

Senza padroni e terso.

Lanciai aquile di sogni roventi

a intercettare i tuoi boudoir.

Vivere con un senso

sta nel non tradire i draghi

per un cane da passeggio.

La verginita’ perpetua

sottende costante deflorazione,

tutto e’ ininterrotto albore,

sazio frammento del tuo fiorire.

Ogni altrove e’ una dimora

della linfa incandescente.

In cerchio ho danzato

con corna di cervo.

Creai l’urdu e i testi yazidi,

fondai e assediai la stessa citta’.

Forgiai la freccia

che penetro’ il mio braccio,

sono il demone che rinvenni

nelle cave dei miei sogni,

la grata che nega gli unicorni,

le palpebre morte del sole nero.

Maree senza fine ho resistito

tra due carezze di veglia e di sogno,

e ne ho fatto una gioiello d’uovo,

oltre gli alleli e i Flammarion,

seconde nozze di Lazzaro

con se stesso, incisura angelica

di folgore senziente.

I tasti d’avorio

del nottilucente pensare

ho dato ai poveri.

I calici e le giunche

dei primi noviluni.

Redimo il perplimere degli universi.

La forza non sarebbe forza

fuori dalle mie madrase,

e dove si abbevererebbe

l’eternita’ se io non fossi?

Ero e sono l’identico fuoco

che genera tutte le ombre,

l’alito al preludio

che galoppa in tutti i corni.

Per sempre antecedo.

Eppure solo il mio sangue

puo’ essere versato

e se apri una bara

nell’oscurita’ alcalina,

e’ sempre il mio corpo

a corrodere soppresso

nel mistero levogiro.

Punta due rupie sul mio orrore e

avrai voltastomaco e vincita sicuri.

Mia e’ la peste partoriente

e i cervelli che hanno fallito

in una cella d’osso irrorata.

Io sono Stalingrado e Gaugamela

e al contempo la codardia

che rimanda la fioritura della carne,

la cerva fremente che tentenna

una nuova stagione.

Un’inderubabile stella de facto.

Ho vagato nella palude e

con le serpi barattato la pelle.

Socio fondatore dell’inferno,

ho brindato coi demoni,

riformulato i loro giuramenti,

ora di mia proprieta’.

Ma anche a Dei di sovrana

luce ho dato asilo,

la doppia fratellanza ho stipulato.

Non vi e’ piu’ da scegliere:

ogni passo e’ verso ovunque,

un ovunque di nuove origini

che si feconda e si da’ nascita.

Ignori quali artiglierie

ha visto questa carne,

ne sai solo lo scompiglio.

Ho posto i piedi tra i fantasmi

e calpestato deserti di cadaveri,

di ghiandola in ghiandola i veleni

son più volte giunti al cuore                                                                    

dandogli una forma che

la croce non sostiene.

Ignori il contrabbando di luce

e di notte che non dà pace.

Così oggi rido

coi denti seghettati

dello squalo sazio:

ai vostri figli mostro

la carne torturata

da una gioia distante,

porto notizia

di un delirio giungente,

ne indico la via.

Pregusto la piena che erompera’

gli argini del cuore umano.

Sulla maschera di Humbaba

ho meditato, rampicando

fiori bluificati ed aurei

ho posto colori adeguati

nell’occhio rinascente.

Rimboccato in sepali

di eterne avventure

sacrifico i millenni con tutti

i miei figli all’interno.

Lasciai entrare negli occhi

le epilessie scomode della

meta’ non vissuta della vita.

Passeggiai tra le conte dei morti,

all’ombra filamentosa di

belle époque equinoziali.

Non sapendo quanti piedi

misura il retro della vita,

potevo giusto sillogire

riguardo la compiutezza,

con fortuna avrei potuto vederla,

ma non ne avrei mai contato i capelli

uno ad uno con le labbra.

Redimo il perplimere degli universi.

Vedrai una stella uscire

dalle mie ossa e viole infinite

crescere sui resti

del Precambriano che sono e fui.

La velocita’ della luce e’ quella

che il buio impiega a ritirarsi.

Tutto e’ coinvolto

in perpetua schiusura.

Chi cacciava le visioni

adesso ne dispensa,

millenni trasfusi

in un lieve tratto umano,

Metatron in sala d’attesa,

quasar in un tubo di scarico.

Il circadiano e’ in fiamme,

chimera baciata nei globuli rossi.

Un dar via ogni chiave.

Tutto il nostro meglio

ci saltera’ alla gola

sul lastrico di un’estasi nascente,

eterno riapprodare.

E’ infatti in questa giga nera

che incontro la densita’ della mia ara,

criovulcano di contravveleni.

Danzo improtetto la fine del mondo,

si’, essere il fondo dell’oceano,

mentre anche per oggi e’ solo spuma,

creste bianche in allungo sul

senso a malapena delle

farfalle, controvento e tenui,

voce di ghiaccio che si frattura,

di fiore che si fraziona.

C’e’ qualcosa la’ sotto, en travesti,

guarda bene, dietro di te,

nel grigio di un jogging infinito,

internati in questa Manhattan

vuota a perdere potremmo essere

ovunque, camuffati, chimerismo

di uno scrigno di gioia.

Scende un coro dalla Circassia

dei nostri lenzuoli, un raggio

di luce prenatale, carta da lettere

di fotoni (tutto cio’ che abbiamo),

pantomima dell’individualita’.

C’e’ solo l’intravisto a mantenermi desto,

indefinire mi si addice, il resto

e’ vestigia, Cinecitta’ di guinzagli.

Tale e’ il bene della

mia follia incompiuta.

Il cielo e’ una giara

e stando alla carne

indubbiamente e’ l’ora,

l’insondata vigilia,

canali scavati da pioggie

ancora a venire.

pettegolezzi su cio’ che abbiamo

sperso nel futuro.

Nel dissesto tutto sugge.

E’ l’essere carcerieri della luce

che ci fa prigionieri del buio.

Gli istanti si distraggono

in meraviglie d’amnesia.

E’ giacendo con tutte le

leggi che ne siamo sollevati.

Questa vita e’ un cosmo in vitro,

e’ il senza tempo in moto

e il suo procedere e’ il trono

immobile dell’anima.

Invigilabilmente procede.

Io sono la sete senziente,

salace Regina di Saba, e

se non ne ascolti il suono

l’anima si contagiera’

della mortalita’ del corpo.
Essere la fiamma o il fumo

di questo ardere audace.

Chiamami Belial, immeritevole,

insoggiogato e senza aurore,

purche’ possa approdare.

Tutto ha un’occasione

se e’ l’anima a concederla.

Le laurisilve fossili

sono qui, nei miei lombi

e nel mio timo inattuato,

per questo non mi sono negate

le contemporaneita’.

Ho ascoltato l’arringa

dell’incappucciato che fa a pezzi

gli asini sotto la caldaia

dell’ultimo inferno:

scandalo e tributo

mi vanno stretti adesso,

l’anima e’ migrazione che non dimentica.

Cio’ che e’ passato fuggevolmente

su una  spiaggia obliata,

tornera’ un giorno ad abitarla. 
Dietro a un tale corrodersi

supremamente l’anima mormora.

Ausculto il sole trattenuto

nella carne e nella tenebra,

cresco e gioco con la pioggia

e col disastro. Stanzia con me,

ama ciò che infrangi,

infrangi ciò che ami.

Conflagreremo nei lineamenti di Dio.

Notte atempore,

tu che inghirlandi il vuoto

e cingi i tuoni e le belve,

non sei che l’abito nuziale dell’anima.

Se non hai indugiato, ringhiato

e cacciato col branco della notte,

perso le tue tracce in Antartide,

diviso la sete dei titani,

fatto carbone delle tue mani

per toccare un’implacabile eclissi…

se non sai niente dei bassifondi

e non hai brindato a sangue

dalla consorteria degli incubi…

se specchiandoti nei canini della bestia

non hai placato il bisogno di tradire

le belle promesse… se a fianchi

di zaffiro danzante e a bocche

ramate orlarte di miele

non hai dato di temperare

i ticchettii della tua pancia…

come potrai o meno scoprire

se l’universo sarebbe franato

con te e se in te avrebbe

o meno scalato le pareti dell’abisso?

Quanto ancora ti manca amico mio

vestito di bianca seta per conoscere

il meglio della tua anima!

Senza mentori e disitruito,

il tuo petto incerto e’ da sempre

la cornucopia delle stelle.

Inerudito, il futuro non e’ che

il passato di un altro presente.

E’ una risposta assisa nel domani

il potere che genero’ la domanda,

la forza a cui ti abbeveri

e’ la stessa che ti asseto’.

Sono il fuoco che mi brucio’,

Dico il vento che mi rubo’.

Deambulo, e vive l’incelebrabile,

cio’ che fa umano l’insperperabile.

Riavvolgo geometrie di innato sole,

la fanteria delle meteore

dietro la crosta delle citta’.

A te che non sei la farfalla giusta,

incagliata in un mondo di vetri

con un paio d’ali per non volare

e un Orione di nei tra i seni.
Calpesti anche tu un’aspra schiusura,

l’attimo intrappolato che

se anche producesse milioni di anni

sarebbero i fremiti d’un istante

ricurvo nel guscio.

Le varieta’ di mondi e di facce,

un giro di caleidoscopio

di questo medesimo adesso.

Tutto e’ attuale da secoli,

nuove impotenti  versioni

del solito attimo ibernato.
Millenni sono passati

e non c’e’ mai stato un domani.

Io suonavo i tuoi capelli,

sibarita su un ponte d’astri fissi,

mi versavo sui tuoi piedi,

dormendo senza etnie,

ai primordi, cruore

e acqua di conchiglia,

nei promettenti flutti.

E questo niente mi convince,

il metro a me davanti e’ il mio diario.

L’Avvenire ci ha accerchiato, e’ finita!

Svesti gli abiti di tizio ragionevole

benintenzionato d’intenzioni altrui,

divorzia dalla prudenza ed investi

ogni tuo avere in pulci nell’orecchio.

Appena cuci delle tasche,

sii certo di trovarvi suggelli di morte.

L’aurora e’ questione di millimetri,

traiettorie a cristallo di neve.

Scova il filo spinato che avvolge le arterie,

lascia che la morte estirpi se stessa

dalle tane ribonucleiche.

Non puoi apporvi lapidi né firme in calce,

solo sgranare un rosario di notti secretate,

che se l’acqua si e’ fatta vino

e il vino si è fatto sangue,

il sangue cosa può diventare?

Non puoi additarlo su una mappa

d’inchiostro dormiente: quando

lo catturi sotto al cuscino, divieni

un mero ornamento sul suo tragitto.

Non puoi più attenderlo e

non hai mai potuto cercarlo;

ti sei illuso di vigilarvi

ma hai concupito l’eco

friabile di un aere vuoto.

Rinuncia ad offrire collezioni spillate

di virtù mondate: comete d’oro

brandeggiano ora nel lupanare

e nella mangiatoia. Dissesta

la tua carta dei diritti e osa

quanto puoi sui cardini dell’anima.

Le mie promesse sono sulle tue tracce

e il destino dei falchi è stabilito:

berranno la sorgente del falconiere.

Fluttuano le tue endiadi senza fine.

Tutto è l’anagramma delle tue intimità.

Gioca coi colibrì di mezzanotte

che non si vietano il fiore morente,

bagliori di un astro mai schiuso,

gloria nel segreto elaborata,

Questo universo ora e’ scosso

e incrinato, la sua menzogna

nasconde un ospite assai prezioso:

e’ sempre un guscio rotto a

rappresentare un uovo compiuto.

Incendio notturno…

tu che cerchi la mia carne

e la conosci bene perche’

troppo bene le dai la caccia,

non puoi darmi una pena

che non ospito, ma solo

divorare le fandonie

che giocano a vivere

per un giorno col mio volto.

In fondo, la stella chiamata Assenzio

gravita acuta su misere ore.

Ore di quasi interessante noia

irretite da astri intermittenti.

Dovetti impilare gli altari

e calpestarli come necropoli,

e notti di digiuno,

le suture craniche

di mio padre e mio figlio

come gradini interrati.

Pochi riconoscono alla notte

la virtu’ che concede al sole

di essere sole.

Testimonio l’impossibilita’ di tradire

irrimediabilmente la vittoria

col labiale di un’anima in attesa.

Il trasloco del sole attende

la calpestabilita’ dell’arcobaleno.

Sans papier, molecola in prima fila,

ho perlustrato ogni motivo,
la liberta’ spetta solo a chi

puo’ farne a meno, la vera

vita a chi frequenta il vuoto.         

mutando il greve in tentata luce,

goccia piccola come mercurio

entra in goccia grande, finche’

la fonte e’ stabilita in rivolo fisso.

Allora si apre il grandangolo

e fa suo lo spettro del sole,

concentrando pressioni

di astri immortali in una

cuspide di culla umana.

Tutto si fa oro parlante, l’anima

batte le ali nei passi di iridi

rinnovate. Ma non e’ il termine,

oltre l’orizzonte dell’angolo piatto

pulsano nuovi spazi, inglobando

in una realta’ convessa

il sole che accusavamo

d’essersi spento. Luce propria e

nictofilia, fusione dei cerchi,

gli argini dell’universo sono infranti.

Sereno, permetti alla morte

di incontrare la porcellana

della tua impreparazione

e lasciala sgretolare i

figliastri del tempo infranto.

Guarda ai cocci e al polverio

di cio’ che consideravi un io,

vedrai presto coordinate

in un morse senza inizio.

Il fuoco di Satana non

e’ meno sacro di quello

di Zoroastro, rendiamo

grazie a Lemarchand.

Rimanere se stessi è solo un modo

per rimandare a più tardi

i conti con l’amore. L’odio

e’ goduria scoscesa.

L’anima impreparata non aveva previsto

quanto la gioia fosse prossima,

proprio lì, lungo le foglie

di melissa sotto un ponticello di pietre

pavide e madrigali. È con la gioia

che l’identità dovrà vedersela.

Nei miei vizi i prodromi

di un amore più vasto;
la malattia, Stele di Rosetta

di una più grande gnosi
oggi costretta al mutismo

dalla fiaba del passato e del futuro.
Alle fiamme amici,

fiamme sulle tre dimensioni

Macerie prime.

Questa schiena invecchiabile e malcurvante

rompera’ l’asfalto.

I secoli claustrali gemmano

nei corpi maturandi.

La luce protegge ogni

tentato Amleto,

le di lei irreali lune,

grovigli di maggese

fatti nascere solo

per approfittare

meglio di se stessa.

Tresche e mirabilie di

predatrice e preda.

Ero ancora piccolo, col mio

quaderno a quadretti,

sottosopra su di un divano, quando

il piu’ saggio dei Buddha mi

convinse che non potevi esistere,

che eri uno scherzo della mente,

polvere alzata dalle bizze di un

cuore invermito dai desideri.
Eppure io ti sentivo ancora,

non eri un’androne vuoto,

non certo un’eternita’ spenta,

palpebra chiusa sugli universi.

Approcciai allora un’imam abbagliante,

con lui danzai e ti credetti

intransigente come il sole,

pensai che tu amassi la purezza del deserto,

che volessi ogni cuore consumato

sotto una luce assoluta da una legge ardente.

Eppure ricordavo la tua risata di bimbo,

quando eri l’acqua che salvo’

coloro che io odiavo perche’

non ti amavano. Indubbiamente

facesti le citta’ per l’amore.

Cosi’ tornai dal vecchio

con la lunga barba,

l’anziano padre degli uomini miti,

su di un trono di vecchio legno,

un po’ stufo di depennare

estasi ed ebbrezze dal libro della vita,

circoscritto in una luce

di zucchero che non dolcifica affatto.

Ma non potevi essere tu,

colui che mi carpi’ l’anima,

colui che captai nelle crepe

lasciate dal fulmine,

colui attorno al quale

angeli e demoni orbitano.

Conoscevo il ruggito matrilineare

che offre infiniti seni lattescenti

non solo ai propri figli

ma anche agli amanti insonni.

 Allora giunse un alchimista, un satanista,

un satiro dalle corna salaci,

e con lui leccai ogni felce,

e vidi le stelle nella rugiada che

era il sudore del nostro amplesso,

ovunque il fondo della tua gola

mi voleva ancora e ancora

nell’edera, nell’albero di cotone,

nelle scogliere blu. Ma anche questo

era solo un contorto girotondo,

immaturita’ panspermica senza

terraferma per la vera Unita’.

Il tuo vero corpo sfuggiva

dalle mani rozze e centrifughe.
Ero ancora alla ricerca di te.

Un signore con un kippa mi raccolse

e disse che tu eri un

inconcepibile valore numerico,

pulsazioni di un aureo assoluto,

un’insostenibile corona senza incoronato,

e che noi siamo solo penombre

proiettate dalla tua energia su di una

sposa nera e dormiente chiamata Malkhut,

che perseguiti in quanto ami.

Ma sapevo che tu continui a crescere,

soffi incessantemente nei tuoi flauti

e riempi i mondi di te stesso.

Sapevo che la tua sposa

e’ desta e danza, e multicolore e’ la sua dote.

Impronte perse su un sudario di monsone,

tracce senzienti, soli precari

visti da sotto la pelle del mare.

Questi occhi ebbri scelsi

nel disuso delle moschee battriane.

Eppure il mistero e’ ancora vergine:

astro o abisso, non so cos’abiti

l’interno dei miei passi.

Non ne usciremo facilmente.

Quanti lunghi paradossi,

quante ossa, rotte e rifiorite

fino a far proprie le mostrine

dei demoni. Tutti i predatori,

tutti i cannibali, non sono che

tutori, e il tuo odio il loro

gioco per condurti dove

davvero sei: ovunque.

Tu radica e eradica, come le nubi

fanno di se’, disperdere,

senza casa, di bara in bara.

O bipede, come puoi tollerare

questo mensile di polisillabi, sii indegno,

illibato ed incolpevole.

Ho tagliato gole impermanenti,

come quando il bambino

correva tra le lenzuola stese,

tra il panneggio dei sogni.

Un lampo ha raddrizzato gli

altari biechi, vecchie storie

raggrumate. Assetato di un

fino alla fine che non arriva mai,

Dispendare seconde chance

e’ un potere che non vi concedo,

io vivo del fatidico e non

credo nelle assoluzioni,
che anche quando appropriate
puzzano di tomba. Le proprieta’
benefiche del perdono
sono una diceria messa in giro 
dai cristiani, mentre io mi sono
fatto le ossa sul campo dei Kuru.

Io non tratto… la mia anima e’
un perpetuo Si’. Non piango

la caccia alle foche

per una pacca sulle spalle,
e non per la sposa amo la sposa,
sebbene essa sia il mio cosmo.
Il fulmine e l’onda

oceanica sono il mio rifugio.

Se dite che sono il lupo nero,
tenetevi a distanza dalla foresta.
Siate coerenti e non correte coi lupi,
correte coi cani verso la cuccia
del padrone. Scodinzolate per una 
ciottola di avanzi, rinunciate ai canini.

Lasciatemi Briseide, la Sulamita
e Simonetta Vespucci, non sono

materia che vi compete.

Perche’ ho visto

quanto puo’ allungarsi un’ombra,

e farsi filo,

e cingere il corallo,

e lambirsi al tocco del sole.

Perche’ al paradiso si giunge rovinando,

e il fuori rotta vale mille Piri Reis.

Questo inferno e’ il tuo regalo

e questo Lucifero intransigente,

roveto tra le arterie blu,

non e’ che una collana di gigli.

Ricordo i polsi aperti come fogne vagati,

la testa di volpe che ingoia le galee.

Gemme e liquami

In fuga da un lutto tattile,

sognavo un teatro d’acciaio.

Adesso percorro sogni che

non ho sognato né potrei.

Qualunque cosa io abbia commesso,

il mare e’ ancora li’, e convoca l’alba.

Il tuo seno tagliato dalla luce

mi ricorda una pretenziosa frontiera.

Ma ogni frontiera, credimi, lo e’.

Guardavo il bosco salutandovi

la mia anima in embrione,

miravo nel meglio della cieca erba

il progetto del proprio poetare,

lanciai un pugno di dadi rossi,

(perché il sangue ci tiene ad esser visto)

poi parlai coi capelli davanti agli occhi.

Se un infante ne avesse il potere

mangerebbe sua madre, il mondo,

se stesso. Perché per funzionare

muta se stesso in fame. L’impotenza

gli impedisce di divorarsi.

Bella Salomè cuoriforme,

in tutta la lunghezza di una tigre

graffi un segreto orbitale:

danzando ti facesti l’albero

che si abbatté coi propri desideri,

sognavi di sognare e ti ho baciata,

ho visto già riflesso sul tuo seno

un giorno nuovo, eterno, ricreato.

Che questo bacio calmi le paturnie,

nell’efebia, ora so, l’amore splende:

è Dio che ce l’ha messo e Dio lo prende.

Credetti fossero coincidenze,

respirazioni frante di dubbie angelogie.

Credetti fossero sovrapposizioni,

scuri allunaggi dai passi criptati.

Credetti fossero coordinate,

richiami schiusi d’un senziente oltremare

Infine scoprii essere i lineamenti,

soglie di luce curvata in palpebre eterne

Che io sia il Diavolo e’ fuori dubbio,

che io mi intinga dove neanche osate

e’ piu’ che assodato: sotto la luna

fecondo ogni sorta di dei,

e che io sia il Diavolo

e’ cosa certa. Ma non e’ questo

il vostro problema. La vostra

maledizione non e’ il fatto che

io sia il Diavolo, quanto che voi

non siete Faust, questo e’

il vostro problema. Neanche

il rango di un Valentino

o un Wagner, ma domestici,

raviolai, anime blande e inelevate;

vaghe, iscariote, minuali,

a cui un Diavolo fa comodo:

il mio vento fondo e ardente

circola libero di leccare ogni driade

e vi da’ una scusa per non uscire.

State a casa che il lupo e’ di ronda,

nascosti nelle cucine, tra le salse,

la ricotta e i ravioli, che un giorno

dovrete ben servirmi, perche’

all’Inferno sarete quello a cui vi siete

condannati da soli: saucier

e domestici di un Diavolo

che ha fecondato tutto tranne voi.

La rarita’ cade di due ottave,

i termini medici aumentano.

Lascio accostate le idiri.

L’immagine di copertina è presa da PROGRESSonline