Gae Saccoccio ha alle spalle studi di filosofia all'Università di Perugia. E' un filosofo del vino, esploratore del cibo e organizzatore di eventi presso Rimessa Roscioli a Roma. Ha un bellissimo blog, di carattere enogastronomico e letterario che è www.naturadelecose.com E scrive anche benissimo

Di Gae Saccoccio

Infantili, sulle fontane, ai bordi dei manifesti, sui muri degli orinatoi, i disegni primitivi che ritraggono Mussolini in una posa cesarea. E serio sembra essere soltanto l’olio di ricino.” Silenzio, la parola a Joseph Roth con tutta la sua carica di lucida amarezza, sarcasmo scanzonato, amore per il dettaglio rivelatorio. Roth, l’ebreo errante, cantore della finis Austrie. Nel 1928 a trentaquattro anni ha appena scritto Fuga senza fine dove narra l’epopea desolata di Franz Tunda.

Mancano ancora quattro anni a quel grandioso capolavoro del non detto che è La marcia di Radetzky, quando si ritrova nell’Italia proto-fascista a snocciolare a parole l’inizio della fine del nostro paesotto in mano a un manipolo di buffoni scimmiescamente addomesticati al pari del loro Duce scucchione “Predappio fesso”, come lo ha battezzato Gadda in Eros e Priapo: da furore a cenere [Garzanti, Milano 1967]. L’inizio della fine di tutto un contesto politico economico e sociale che porterà dritti all’apocalisse della II Guerra Mondiale. Tutti fottuti, nessuno escluso, anche il Dux appeso a testa in giù, il “fava, batrace, appestato, bombetta, maramaldo, farabutto, impestato, Gran Somaro, Gran Pernacchia, merda, Fottuto di Predappio, Provolone, Finto Cesare…” sempre per ricordare con ghigno priapesco, gli appellativi gaddiani coloriti di rancura cosmica e livore sull’anima. Questo libricino tanto scarno nelle pagine quanto illimitato nei contenuti, raccoglie alcuni reportage datati 1928 anno in cui il grande scrittore mitteleuropeo fu inviato dal “Frankfurter Zeitung” in Italia per raccontare ai suoi lettori il Belpaese di Benito Mussolini. Un’Italietta – allora come adesso – assolutamente disinteressata agli stranieri appassionati di attualità, alla libertà di stampa. Un’Italia avversa ai curiosi circa la situazione finanziaria o le lotte del proletariato. L’Italia, ieri come oggi, che è soltanto un “Paese per sposini in viaggio di nozze e non per giornalisti.” Povero Roth, vedesse ora quanto è stato svenduto dagli stessi giornalisti il ruolo nobile del giornalismo critico e militante. Giornalisti tramutati nel frattempo in pennivendoli belanti a tempo pieno. Potesse vederlo coi suoi occhi di vetro, è certo che Roth rivaluterebbe in prospettiva meno sferzante quegli “sposini in viaggio di nozze per il Lido, il Vesuvio e le rovine del passato.” Tuttavia bisogna subito aggiungere che nell’articolo intitolato Il Sindacato dei Giornalisti, Roth, novantuno anni fa, non le mandava certo a dire sulla situazione del giornalismo in Italia di allora che non mi pare poi essenzialmente essere cambiata granché, se non in peggio, rispetto a quella attuale: “Si aprano i giornali italiani! La loro caratteristica è la noia.Primo incontro con la dittatura, fosse una forma musicale suonerebbe come uno scherzo mozartiano. I tempi Allegro, Vivace o Presto inquadrano per bene le immagini predominanti di questa composizione svelta ma graffiante dove l’atmosfera di musica da camera è ritmata sul tema di fondo dell’infantilismo da farsa delle giacche grigioverdi in camicia nera e “i briosi cappelli da boy scout“, che di lì a qualche anno condurrano tutto il paese a una devastazione della civiltà umana da tragedia greca. “(…) infantile è lo splendore dei gambali in cuoio, la pistola civettuola, la fascia variopinta, il berretto troppo alto, la sciabola troppo lunga. Infantile è il saluto per mezzo della mano alzata che con largo gesto si trasforma per metà in schiaffo e per metà in benedizione. Infantile è la curiosità insistente delle spie che da me non sapranno nulla, perché davanti a me si tradiscono.” Roth, con il suo sguardo apparentemente svagato, coglie nel segno in quei particolari che per altri cronisti più distratti sembrerebbero bazzecole senza costrutto. Roth, la tempra dello scrittore di razza, sa percepire tutta la banalità del male incistata nel carattere nazionale d’un popolo di cui non si capacita affatto come possa farsi irretire a morte, ingannare da provocatori grossolani, delatori arruffoni e spie della polizia in borghese che paiono piuttosto dei burattini da pagliacciata in costume. Eppure sono stati gli artefici cinghialeschi di quella che lo stesso scrittore austriaco definisce in un altro articolo del ’28 per il “Frankfurter Zeitung”, una Dittatura in vetrina. Spie grottesche appunto che “con tutta la loro pericolosità mi appaiono infantili.” Roth, perenne sradicato in fuga, già due anni prima dell’Italia cioè nel 1926 aveva attraversato la Russia in lungo e in largo riportando dall’esperienza sovietica un lucidissimo disincanto esistenziale così come leggenda vuole abbia dichiarato a Walter Benjamin quando si incontrarono a Mosca, rivelandogli di essere partito bolscevico ma di ritornare monarchico. Un disincanto esistenziale lucidissimo assai ben rimarcato anche in questi reportage dall’Italia quando, davanti all’oltraggio dell’innocenza dei bambini, osservando il triste spettacolo dei giovani balilla, miniature militari in parata, affonda senza pietà il coltello nella piaga contro quell’obbrobrio dell’esaltazione di massa ad una voce. Contro quel vizio brutale dell’addomesticamento al pensiero unico che a prescindere dai Fascismi storici sembra ahimè una costante comportamentale – pedagogica direi – anche in epoca di Democrazie ipocrite come le nostre:  “Talvolta la musica fa una pausa. Poi un fascista che si trattiene sullo sfondo emette a brevi intervalli il noto grido guerresco. Rimanda pericolosamente alla preistoria dell’umanità (…) Spesso ho potuto notare che al sentimento nazionalistico manca il senso del ridicolo.” Da queste pagine al fulmicotone emerge la radiografia di una nazione superficialmente soggiogata alla tracotanza dei teppistelli ignorantoni in camicia nera e il testosterone mal gestito che può ricordarci in maniera inquietante certe derive della nostra odierna quotidianità politica fottutamente priva di alcun senso del ridicolo, dove quell’ottimismo senza riserve a furor di popolo che serpeggia ovunque, viscido, cristianocentrico e perbenista, non è altro che il rimbombo di un vuoto interiore incommensurabile. Il vuoto della politica. Il vuoto della storia. Il vuoto della cultura. Il vuoto dell’economia della nostra grigia, insidiosa, disperata, ineluttabile e coatta attualità. Ancora Roth: “L’ottimismo che domina il volto delle strade italiane è talmente incondizionato, così candido quasi, da far sospettare che sia obbligatorio.” È sempre una bella goduria dello spirito seguire l’acume, la profondità di visione di un grande scrittore come Joseph Roth. Un classico universale che attraverso il bisturi della propria penna, riesce ad incidere sulla pelle della realtà di superficie, mostrandoci le varie stratificazioni delle realtà interne. Il problema però è che una volta aver preso coscienza delle realtà interne, si dovrebbe poi agire sulla realtà superficiale per sentirsi meno inermi, per partecipare attivamente alla vita fuori dai libri e non continuare a subirla nonostante dentro i libri abbiamo appreso a comprenderla più di quanto la vita stessa sia disposta a comprenderci.

Gae Saccoccio

La Quarta Italia Book Cover La Quarta Italia
Joseph Roth. TRad. di S. Aigner
Saggistica
Castelvecchi
2013
68