Piero Dal Bon è poeta, saggista, critico letterario. Tra le sue pubblicazioni, volumi anche collettanei su Volponi, Pirandello, Papini, Pavese, Ungaretti, Primo Levi e testi di Moresco di cui ha fatto traduzioni e scritto prefazioni e postfazioni

Di Piero Dal Bon

Mi chiamo Giovanni Maccarone. Ho pensato al mio palazzo venduto sul Canal Grande, al suo verde, e alle camicie pulite e profumate da Roberta la cameriera canterina, quando mi sono svegliato, in questo attico catalano, e ho visto il pulviscolo della cenere di smog e ho sentito l’odore dei piatti non lavati, la piramide storta del loro squilibrio. I libri erano sparsi in disordine sul tappeto. Mi sono disteso sul divano, nudo, sotto il perimetro della finestra e ancora spalmato del latte di ieri notte, e ho aperto il romanzo svizzero, e se anche qualche pagina sua toccava delle ragioni che erano mie lo ho richiuso e mi sono messo a pensare alla mia morte corporale e spirituale. Ho trovato molti colpevoli e ho cominciato a contarli con le mani. Io ero un bambino prodigio, un santo molto lucido, e ai miei riccioli biondi e al mio corpo infantile, tutti volevano bene. Quando qualcuno mi trattava male, salivo sull’albero, a parlare con i miei angeli bonari, e di lí non scendevo, fino a che mia sorella Celia, non aveva sgominato i nemici a forza di calci maschi e di ringhi animali. Ora Celia ha un bambino, che assomiglia a me, e si chiama Romolo. Quando gioco con Romolo ci capiamo solo guardandoci e ci facciamo delle grandi risate. L’altro giorno siamo pure scappati dal tavolo delle birre, e ci siamo fatti una passeggiata, lui toccava i lucchetti, ed io li lucidavo. Qui ormai nessuno mi capisce. E cado sempre più dentro. “L’argano, ci vorrebbe l’argano” mi disse ieri, richiamandomi, qualcuno. Mi è sembrato ieri che all’avvicinarsi l’amica dai capezzoli allargati, a cui avevo negato un bacio, si sia rallegrata, vedendomi triste, oscuro, preso dal giro astioso delle mie rivendicazioni, dei miei risentimenti. Ho sentito la sua piccineria concentrata e schiva. Non ho saputo rispondere alla sua umida confidenza, che era un insulto, una voglia di ferire, per sentire potenza. “¿Te pico, eh?” avrà pensato, perchè nelle sue pupille ho vista una striscietta di trionfo ordinario. Ho pensato velocemente che tornavo a sbagliare, e che il mio viso era ancora troppo vicino e fuoriuscente. Ho sbadigliato. Ho sentito nel cortile dell’Università le brune frecce catalane della piccolezza antropologica attraversarmi una ad una. Ne ho provato piacere, mentre salivo le scale di marmo verso il mio ufficio, con la fronte bassa, greve del peso del mio titano non domo. Dentro il cespuglio dei pensieri, dietro di essi, ho sentito che da sotto qualcosa mi chiamava, con una tenerezza che sgominava la banda dei nemici invidiosi, degli amici menomati e circoncisi, anche decapitati, alcuni di loro. Era la natura, era il corpo, forse io-dio bambino? Mi sono chiesto allora pure dove se ne fosse finito quel rutilante mucchio lí, ho finto di rimpiangere quel fiammeggiare estroso, poco prima di prendere in mano la penna e di scrivere sul quaderno queste frasi. Ieri ho passeggiato per la spiaggia, di notte, con Barnabea. Ci siamo distesi sulla panchina dello spiazzo dell’albero con le foglie a mano aperta. Del mare c’era il silenzio prossimo, qualche palma più sotto, qualche refolo di salmastro. Sulle ginocchia magre di Barnabea, ho pensato alle ginocchia distese su di un prato inglese di Claudia. Ho ancora la foto. I miei jeans. Ripensandoci, in quel momento, ho deplorato l’indolenza dell’insieme. Ma allora stavo bene: ero un ilare pagliaccio non sgomento, con tante illusioni egotistiche Abbiamo scambiato un paio di frasi. L’ho presa in giro. Barnabea parla sempre delle stesse cose. E io pure, con la mia voce nasale, svogliata. Mi sono sentito condannato alla musoneria della luna che non stravolge. Ho sentito tutta la prostrazione sterile, cerebralistica, la mediocrità cerulea e sciatta di questi anni, la dispersione del centro che è come un copertone sformato. La gravità del cielo, mi riportava dentro, come in un vortice circonflesso. Ho pensato per un momento che non c’era salvezza, né speranza. Ci siamo alzati e abbiamo ripreso a passeggiare, mentre i cofani dei taxi ci passavano accanto, rallentando vicino a noi. Abbiamo guardato attraverso la vetrata della piscina, le vasche azzurre e silenziose. La torre della funicolare ci stava sopra. A un breve risveglio di vento ha tremato, e le funi di acciaio hanno battuto contro il telaio della torre. Ho pensato che era un segnale. Non ho saputo pensare di cosa. Ho rimpianto certa acutezza, certa sottigliezza misticoide. Mi sono chiesto se tutto è solo quello che è. Se per caso non ci fosse qualcos’altro. La trita identità di qualsiasi cosa con se stessa mi accompagnato verso il centro. Qualcuno mi seguiva mentre il tacchettio di Barnabea mi pareva quello di un condannato. Forse la colpa era loro. Allora ho cominciato a fare degli scongiuri, ripetendo “loro loro loro“. Un alberello magro e sghembo di cinta s’era messo appena di profilo. Forse aveva voglia di scherzare e di prendermi in giro. Allora ho alzato irritato gli occhi verso il cielo. S’era fatto più nuvoloso e spesso, con quella luce arancione che è propria dei cieli di qui. Il taxi ci riportava a casa, quando ho pensato che avrei dovuto stare più dentro e nello stesso più lontano: l’opaca mancanza di musica di queste giornate mi ha fatto desiderare qualcosa come una levitazione stralunata, una vivacità ricca, strana, dei sensi e della mente opalina. Mi sono chiesto pure chi fossi per desiderarlo, e da quali ragioni storico, personali, biografiche mi arrivasse questa necessità, questa esigenza. “Egli aveva troppo mentito, aveva troppo ingannato, s’era troppo abbassato. Un ribrezzo di sé e del suo vizio l’invase“. Ora, qui, in questo attico catalano, notturno e popoloso danzo a passi brevi, m’inerpico e stendo per scale di note, regali ed evanescenti. Mi storco e contorco: “l’errore e il rimbrotto è il voler far a meno della bellezza“, penso e non penso, e mi vergogno di pensare, mentre ballo nudo davanti a Barnabea, che ride, con il suo vestitino grazioso e scollato sul divano. Ha delle ciglia ben disegnate Barnabea, e un collo sottile da cui zampilla quella sua risata che mi lusinga e mi esibisce. Sento che le note del piano pungolano le ramificazioni del mio cervello, direi “Musica maestro” a me stesso, mentre con l’occhio seguo le circonvoluzioni di un bianco gabbiano nello spazio di cielo che ritaglia la finestra. Le sue larghe ali hanno una possanza pervicace, come un’intenzione profonda. E’ immerso, convinto, sprofondato nel suo. A me, invece, c`è sempre qualcuno che mi segue e separa. Chi mi segue? Mi sono fermato e accovacciato sul tappeto persiano, ed ho cominciato a contare con le dita quelli che mi seguono e mi separano, dall’essere frontale assoluto, che remore, ritegni, quali oscuri sotterfugi, autoavvilenti, quali feritine, maestri esigenti, sarti dell’anima, parenti stolti e previdenti, mi trattengono dal naufragio e da più veri stenti? Ho convocato, quindi, davanti me Marina, che è frontale assoluta e apoftegmatica, senza diaframmi psicologistici, e ho cominciato a insultarla, a rimproverarla, ad ammonirla, ad aggiornarla. “Derive novecentesche, sterili immaginazioni che non si bruciano nell’oggettività della pietà” si è presentata fulminea e assertiva, con i tacchi rimbombanti di una femminilità tracotante e vampiresca, premuti dal suolo dalla gravità della grazia che c’era nella sua tenerezza abbandonata, che lei non voleva vedere. Per non tradirla la cito e poi la ricito; vi spiego, quindi, dopo. Prima, però, vi dico che nell’occhio spiritato e nella voce mormorata e spirituale, ho sentita un’intenzione malvagia, una volontà maligna di prendermi e perdermi. Mi sono arrotolato su me stesso, cercandomi l’anima prima e seconda, tentando un sapore di me stesso: volevo succhiarmi, obliquo e fachiresco. Le lievi sentenze della pesantuer di Marina fiottavano nell’aria, mentre lei si era dissolta nella cenere smorta che aveva bruciato …il mio, non molare delirio azzurro di bontà. Ho sognato, a quel punto del conteggio, una grande rivoluzione, rumorosa e danzante, un’ebbrezza urlante e nello stesso tempo scorporata, qualcosa che strappasse noi a noi stessi, un fuoriuscire dalle nostre paurine egotiche, che fosse un entrare più dentro, dove nulla si perde. Non come al supermercato che tutti i pacchetti che avevo preso, senza ricordarmi del carrello, mi scivolavano di dosso, e allo sparpagliarsi attorno mi hanno ricordato Calvino, che ieri mi diceva “Sai, mi sento a questo punto della mia vita come uno che porta tanti pacchetti, che gli cadono da tutte le parti”. Ho troppo. Devo ritirarmi, ripensare. Stare dentro le cose non posso più. E’ finito il tempo del mio stendalhismo Alla risalita in ascensore (nella discesa avevo trovato la Señora Piluca, svanita e blaterante parole che sformavano l’eccessivo rossetto della sua boccuccia deplorevole) mi sono rivisto allo specchio; ho pensato che avrei potuto morire istante per istante, davanti ad uno specchio, lasciando il mio viso invecchiare. Sul divano mi aspettava una pagina aperta da “Il poeta e il suo tempo“. La lessi e mi alzai, andando verso la spiaggia dove mi sono salutai cordialmente, pensando a un studio di Chopin, quasi mi veniva da ridere, anzi ridevo proprio a crepapelle, nuotando al largo, a bracciate quasi spavalde, verso la rada, dove c’era una delle navi di mio padre, con tutti quei russi dentro che berciavano vapori di vodjka. Ne bevvi venticinque, ridicolizzando Bukovski. Qualche minuto dopo ero su Gadamer, e me la spassavo di gusto. Ma proprio di gusto, con la sarabanda e il malandrino, a bruciapelo. Capofitto nel poi, multiplo e svagato, digitai quello che segue. E, lacrimoso, staccai la testa al toro.

L’immagine di copertina è Mare in tempesta di Claude Monet presa da Finestre sull’Arte