Pur non essendoci bisogno di presentazioni, due parole su di lui tratte dal suo sito "Gian Ruggero Manzoni è nato nel 1957 a San Lorenzo di Lugo (RA), dove tuttora risiede. È poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer. Frequentato il Liceo Classico a Lugo di Romagna, nel 1975 si iscrive al DAMS di Bologna indirizzo Spettacolo. Nel 1977, a seguito dei fatti riguardanti il famoso “Marzo Bolognese”, lascia la città emiliana e parte volontario nelle Forze Armate. Negli anni successivi soggiorna per lunghi periodi in Belgio, in Francia e in Germania, dove frequenta quegli ambienti artistici. Insegna Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino dal 1990 al 1995. Come teorico d’arte, pittore e poeta partecipa ai lavori della Biennale di Venezia negli anni 1984 e 1986, edizioni dirette da Maurizio Calvesi. Ha al suo attivo oltre 50 pubblicazioni e 70 mostre pittoriche. Ama abitare in provincia e, come di solito dice, “dell’uomo di provincia possiede tutti i difetti, ma anche tutti i pregi”. Il resto potete leggerlo su www.gianruggeromanzoni.it

LO SMALTO SUL NULLA

di Gian Ruggero Manzoni

Spesso mi domando cosa nel vero manchi, oggi, in un sistema sociale sempre più caotico come il nostro, cioè quello Occidentale, e ai mondi che a esso si rifanno. La risposta che ne scaturisce è sempre la medesima, comunque io imposti il quesito: “la mancanza di un progetto esistenziale forte”, umano, elevante, solido e duraturo … umano perché a livello divino o naturale il progetto è comunque ancora visibile, per quei pochi rimasti che hanno i giusti occhi per vederlo, mentre, a livello dei più, tanto si è a tal punto oscurato che la cecità progettuale vitale ha colto quasi tutti gli abitanti di questo quadrante del pianeta, ridottisi a non guardare oltre il proprio naso o, per dirla meglio, oltre il proprio ombelico. Quindi è l’uomo che, allontanandosi dalla divinità o snaturandosi, ha abbandonato ogni tensione verso l’assoluto per rendere orizzontali e tetre le sue manifestazioni, votandosi, unicamente, all’affermazione del proprio IO e, per raggiungere ciò, a leggi … a regole degeneri o, peggio ancora, alla mancanza totale delle stesse (quindi all’assenza di ogni codice etico) così da dedicarsi all’accumulo più sfrenato, al consumo compulsivo, alla coercizione, all’edonismo, alla corruzione, allo stordimento autolesionista (quale vittima di se stesso) o alla più cinica speculazione (come la definiva Pound) e, perciò, alla esaltazione del profitto, quindi al demone denaro, come unica sovranità rimasta che regola detta spirale votata alla più purulenta e malsana sterilità, nonché alla morte definitiva della dimensione mistico-spirituale o, per chi crede in essa, dell’anima, oppure “di ciò che del senso originario è rimasto in noi”, come lo definiva Rilke.

Il filosofo Emanuele Severino, a seguito di una complessa analisi, a suo tempo scese nella dimensione più inaccessibile del pensiero di Nietzsche avendo il merito di restituire con chiarezza il concetto “dell’eterno ritorno dell’eguale” (in ogni ambito del singolo e del comune) a chi voglia avvicinarsi a quella nuda e ipnotica vertigine ontologica. Infatti, applicando il suo sguardo da attento indagatore a tutta la costellazione filosofica disposta da Nietzsche intorno al movimento circolare dell’Essere, Severino è giunto a scorgere “nell’eterno ritorno” la conseguenza inevitabile della fede nel divenire privata della componente mistica, e cioè di quella fede vacua per cui Dio è inesorabilmente morto; d’altra parte questa inevitabilità è divenuta la forma estrema assunta dal becero nichilismo odierno (indubbiamente di ben basso cabotaggio) come Severino, giustamente, lo condanna.

Con la dottrina “dell’eterno ritorno” Nietzsche, quasi centocinquanta anni fa, portò al culmine il carattere costitutivo non solo della filosofia contemporanea, ma della stessa civiltà della tecnica, cioè ci condusse alla distruzione, probabilmente inevitabile, della tradizione filosofica e dell’intera tradizione dell’Occidente (si veda infatti, nel ‘900, come dopo la Scuola di Francoforte il pensiero filosofico ben poco abbia dato).

Quindi a quando risale il momento del nostro tramonto?

Una genealogia bruciante ce la fornì, sempre nel secolo scorso, un altro Titano quale fu il poeta e pensatore Gottfried Benn: “Intorno all’epoca della morte di Goethe cominciò la dissoluzione di questo sentimento [nei confronti di Dio e della Natura percepita grecamente come un tutto animato]. Sorse una visione del mondo a cui mancava ogni tensione verso un aldilà, ogni senso di un legame con un essere extra umano. L’uomo divenne la corona della creazione e la scimmia il suo animale prediletto, dalla scimmia l’uomo si faceva confermare, dal punto di vista della filogenesi, fino a quale splendore egli si fosse esaltato nel suo ricambio di materia e di energia”. Né più né meno come dire: dalla Rivoluzione Francese in poi, con l’avvento del positivismo, dello scientismo, del materialismo, quindi del relativismo, ogni possibile tensione sia sentimentale, sia emozionale, sia metempirica, sia creativa rivolta “all’alto” o “all’oltre” oppure “all’assoluto” è via via venuta a sparire, se non in respiri neoromantici o tardo romantici.

Il risultato di tale nefasto insediamento razionale (perché alla “ragione” necessita attribuire il fallimento dei nostri sistemi sociali e non solo – e o cos’altro se non a lei?) è certamente il solito congedo dal Sublime, ma anche qualcosa in più, sempre secondo Benn: “L’uomo è buono, ma la sua sostanza razionale e tutti i suoi dolori si possono combattere con misure igieniche e sociali: questo da un lato, e, dall’altro, la creazione sarebbe accessibile alla scienza, e da queste due idee venne la dissoluzione di tutti i vecchi legami, la distruzione della sostanza, il livellamento di tutti i valori, da esse la situazione interna che ha creato l’atmosfera in cui tutti siamo vissuti, da cui tutti abbiamo bevuto fino all’amarezza e fino alla feccia: nichilismo”.

Perciò “l’eterno ritorno”, come estrema approssimazione del mondo del divenire al mondo dell’essere, ha fatto riemergere “la punta della montagna di ghiaccio” che vaga nelle acque oceaniche del pensiero contemporaneo. La montagna è la follia del poter continuare a camminare (leggi progresso) con la convinzione che le cose vengano dal nulla per ritornarvi: l’abnorme follia dell’Occidente da cui molto del pensiero del XX secolo ha attinto, e anche quello di Severino, ma, nel suo caso, al fine di cercare di svegliarci e disincantarci da tale abominio e riscoprire “la radice profonda”.

Già da queste prime osservazioni si può arguire che molte delle spiegazioni della crisi del nostro tempo rimangono, per i più (e lo ripeto), oltremodo in superficie, anche quando vogliono osare maggiormente. Il fenomeno, che non viene adeguatamente affrontato, è, appunto, l’abbandono dei valori della tradizione occidentale; e questo proprio mentre le forme della modernità dell’Occidente si sono affermate quasi ovunque (così che noi si risulta non altro che il famoso ciclope dai piedi di argilla). Un abbandono che, mano a mano, si è portato via ogni forma, appunto, di assoluto, ogni forma di assolutezza e di assolutismo, dunque anche quella forma di assoluto – come diceva Max Weber – che è lo Stato moderno, che detiene: “comunque il monopolio, a suo dire legittimo, della violenza”. Questo uragano che si è trascinato con sé tutte le tradizioni è stato prodotto nonché guidato dall’avvento del tecnologico. Detto turbine ha travolto anche le strutture statuali, nonché ha investito, naturalmente con maggiore impeto, innanzitutto le forme più deboli componenti lo Stato. Tale processo (di cui le pareti e il tetto, innalzati dall’avvento della scrittura fino al crollo del Romanticismo, stanno andando in malora) risulta inarrestabile, ritrovandosi, la civiltà del tecnologico avanzato, quale unico ma illusorio salvagente rimasto, ciò che lo stesso Severino chiama: “la forma più rigorosa della follia estrema, quando per follia estrema intendo il credere al carattere effimero, temporale, contingente, casuale dell’uomo e della realtà, cioè la convinzione che ogni cosa venga dal nulla e vi ritorni e la difesa suprema dall’angoscia suscitata da questa convinzione, cioè che la sola difesa rimastaci – la quale, nella nostra tradizione, era costituita, in ultimo, da Dio – sia diventata la tecnica”.

Da questa tragedia (perché di una tragedia si tratta, non di un dramma) come poter sperare che anche le idee, quindi i progetti, possa sopravvivere? Infatti anche le ideologie sono morte. Ad esempio, in politica, forse che le cosiddette Destra e Sinistra esistano ancora? La Sinistra, soffocato il suo impulso rivoluzionario, non risulta nemmeno quale socialdemocrazia, cioè quella linea di pensiero che mira all’abolizione delle classi e del capitalismo per via democratica, infatti è ormai lontanissima da queste aspirazioni, immersa, come si trova, nel culto, peraltro diffusissimo, della validità dell’organizzazione capitalista della società, mentre la destra, quella rimasta, cioè l’estrema, vive di nostalgie e feticci, di slogan, ormai obsoleti, in una deriva di “analfabetismo di ritorno” sconcertante (a parte una qualche mente come il filosofo e scrittore francese Alain de Benoist).

Tutti questi temi, più altri di primaria importanza, furono trattati in maniera magistrale sempre dal grande Gottfried Benn nel suo “Lo smalto sul nulla”, edito in Italia da Adelphi nell’eccellente traduzione di Luciano Zagari, volume che vi suggerisco di leggere.

Il libro contiene probabilmente la parte migliore della prosa di Benn e alcuni dei suoi saggi, illuminanti e, a seconda dei casi, comunque apodittici.

Come Goethe odiava Newton, nel quale scorgeva la vittoria del pensiero fisico-matematico su quello intuitivo, Benn vide un tragico paradosso nella concezione della realtà quale freddo meccanismo che, con ben poca fatica, risultò concetto dominante della stessa alla fine del XIX secolo. A seguito di ciò, l’atteggiamento di Benn risultò, nei suoi scritti, abnorme e furibondo. Il suo odio per il “razionalismo” non si limitò a Cartesio e a Voltaire, ma risalì molto più indietro, molto più lontano da noi, quando, nella nostra scatola cranica, l’encefalo (che sovraintende all’attività intellettuale) detronizzò il mesencefalo (che sovraintende agli impulsi e all’istinto). In quel momento, mentre l’essere umano dipingeva scene di caccia nelle caverne o vagava per i deserti oppure pascolava bufali presi al laccio, nacque, secondo Benn, l’Illuminismo, cioè spuntarono i Cartesio e i Voltaire.

Benn, seppure possessore di un’intelligenza brillantissima, estremamente evoluta e oltremodo fine, nelle sue pagine rievocò con passione la beatitudine del mesencefalo, quando l’uomo possedeva la visione naturale, quando la nostra identità collimava con tutti gli elementi formanti questo pianeta, quando gli archetipi prendevano forma, quando le leggende e i miti germogliavano, quando il sentimento magico la faceva da padrone, idem la telepatia o la telecinesi, così da cercarne le ultime tracce nei sogni e nelle nevrosi dell’attuale organismo, alienato e decaduto. La sua immaginazione – spesso ironica – giunse fino ad agognare un nuovo Diluvio Universale, un’ultima catastrofe, o la completa trasformazione del sistema cerebrale attuale. Forse, alla fine dei tempi, o fra un secolo, in seguito a chissà quali rivolgimenti, noi torneremo a essere quelli del periodo mesencefalico, comunque resta il fatto che la nausea che Benn, come altri del suo calibro, provò per la contemporaneità risultò abissale, però confidando che, quali novelli sciamani, prima o poi  saremmo riusciti a riudire l’eco estatico dell’universo, a leggere segni e tracce come fossero libri, a vedere con occhi di falco, e, con un cenno delle dita, a trasportare pietre ciclopiche per costruire i nostri templi.

Quindi con la Rivoluzione Francese e con la Dea Ragione tutto “il vecchio universo” è andato in frantumi per lasciare il posto al nuovo, a quello arido, a quello privo di scopo, e quindi di progetto, così che Benn, assieme a Junger, Hugo von Hofmannsthal, Carl Schmitt, Ernst von Salomon, Oswald Spengler, Thomas Mann, Martin Heidegger, Stefan George e non pochi altri, iniziò a farlo a pezzi, a lacerarlo, a ferirlo, a distruggerlo, con una sorta di amore per le componenti fatte a brandelli unito a un identico amore per il gesto dell’annullamento.

Non c’erano né più Dio né più Natura, nemmeno usati nel senso metaforico di Goethe, non c’era più l’Essere, non c’era più il Tutto, non c’era più l’uomo completo, non c’era più continuità o trasmissione, non c’era più rapporto tra io e realtà, tra intuizione e concetto, comunque di ciò, quelli che furono i padri della Rivoluzione Conservatrice, non ebbero alcuna nostalgia (o affermarono di non averla) perché lo consideravano “irrimediabilmente perduto”, ma poi ecco, e ancora, il salto mortale effettuato tramite un ennesimo ulteriore paradosso: dal totale naufragio della storia, se non la nave, restò il suo relitto, restarono i suoi pezzi, sparsi qua e là sulla spiaggia della dissoluzione. Più nessun tempo li legava, più nessuna logica li disponeva, eppure con quale virulenta aggressività dominavano, con quale intensissima luce ancora scintillavano, soprattutto là dove le superfici di frattura, e con quale evidenza i dettagli accartocciati e violentati si affermavano, creativamente parlando, diventando un perenne presente, incombendo sullo stesso, abolendo ogni passato e ogni futuro. E che esaltante brivido indusse quel “linguaggio assoluto dei frammenti”, il quale non voleva altro che travolgere, stordire, far vibrare, nel contempo spietato e ardentissimo, quale scomposizione calcolata in ogni suo dove, in ogni suo come e in ogni suo quando, seppure, nel contempo, pazzamente allucinato. Si era, così, al dicotomico armonico. Allo schizoide teorizzato.

L’intero venne in questo modo capovolto. L’anello si era alla buonora rotto, idem la catena che ci rendeva e ci rende schiavi del tempo e dello spazio. Eravamo alla variante, quella non contemplata dalla ciclicità, dal ripetersi dei meccanismi che determinano e mantengono il Potere, sempre eguali e monotoni da che mondo è mondo.

Il poeta, l’artista, l’intellettuale non erano più organici né organismi marini dalle “ciglia vibratili”, come li ha definiti il sommo Pietro Citati nel suo libro “La malattia dell’infinito” (che molto mi è servito per stilare questo mio scritto), ma, per l’eternità, fabbricatori di suoni e gesti, come Poe, Mallarmé, Valéry.

Ecco l’idealizzazione del “formalismo assoluto” in piena assenza di forma, perché, quale risultanza (nonché morale della favola), i massimi artefici non dovrebbero mai idolatrare la configurazione, ma, bensì, l’essenza che ha dato vita alla stessa, poi emanante dalla stessa (vedi Kafka, ad esempio, o Kandinskij). Ed ecco riapparire l’idea prima, ecco riaffiorare lo spirito ideale, e la lunga coda di cometa che lo segue. Ecco il Messia che dalla rupe grida a coloro rimasti in vita dopo il crollo: “Leggete Giobbe e Geremia; leggete Isaia ed Ezechiele; leggete Malachia, Daniele e Giona; e mai fatevi travolgere dall’onda malsana e mai fatevi ingoiare dalla Bestia abnorme, ma cavalcatela! Lottate! Proponetevi quali esempi!”.

Lo smalto sul nulla Book Cover Lo smalto sul nulla
Gottfried Benn. Trad. di Luciano Zagari
Letteratura tedesca
Adelphi
1992 II ediz.
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