Piero Dal Bon è poeta, saggista, critico letterario. Tra le sue pubblicazioni, volumi anche collettanei su Volponi, Pirandello, Papini, Pavese, Ungaretti, Primo Levi e testi di Moresco di cui ha fatto traduzioni e scritto prefazioni e postfazioni

Sono un genio

lunare ed eccelso, di quelli epocali,

mai

visti, storici, e

millenarisitici, di quelli che fanno

mettere le mani nei capelli, e

gridare

madonna mia ma questo da dove

è uscito con le sue dinamiti e i

petardi

dei suoi

scoppietti al fulmicotone

all’acetilene, pura dinamite

distillata

tutta da spendere, a manetta, a

perdifiato.. L’avete, voi molti,

smorfiosi gesuitici scettici refrattari,

ma

soprattutto stolidi e invidiosi,

tentato di nascondere sino ad ora,

e

c’eravate pure

quasi riusciti a convincermi,

candido e credulo, razza appestata

di

imbroglioni sotteranei e risibili di

malevolenze mal dissimulate,

eppure no, ho alzato la cresta

immaginosa dei miei riccioli e ho

fatto le

boccace alle vostre gorgiere, ai

plettri

solari, alle teorie quantiche, e ai

chakra. E finalmente sono

sbocciato, nel

germogliante assurdo della mia

strampalataggine stratosferica.

Ora ballo sulla

corda della luna, suono la

trombetta del mio cinguettante

delirio, e me ne

vanto della mia strafottenza russa

e megalomane. Ballo sui vostri

cadaverini

smunti, e sulle vostre boccuce di

mogano e tetano. Appena sceso

per strada ho

divelto l’albero

del barbone tedesco a sinistra. Ma

ho risparmiato il barbone a cui ho

dato

un abbraccio pieno di populismo,

antiscuola di francoforte, pieno di

un calore

umano che l’ha reso uno

scheletrino incarbonito. Il ghigno

del mio

maestro spirtuale mi ha detto che

per strada ho

divelto l’albero

del barbone tedesco a sinistra. Ma

ho risparmiato il barbone a cui ho

dato

un abbraccio pieno di populismo,

antiscuola di Francoforte, pieno di

un calore

umano che l’ha reso uno

scheletrino incarbonito. Il ghigno

del mio

maestro spirtuale mi ha detto che

dolce che mi aspettavo. E allora

salgo

sull’elicottero in cima al platano

scolorito dallo smog metropolitano,

e

incendiato dal carbone di mille

rivolte studentesche, che ho

soppresso con il

manganello del mio fallo

gigantesco, e decollo verso il

vuoto del cielo pingüe e roseo di

questa primavera d’agosto, che

non cessa di

sbalordirmi d’ostriche e pinguini e

motteggio il pilota peloso che ride

del

mignolo con cui gli accarezzo il

naso. Il suo occhio non è né

pedante né

abbondante ma schiuma

involamenti pervicaci, ossi cimici e

pernici.

Voglio dire

che orbitiamo ora attorno alla

circonvallazione sinistra del centro

storico,

tra cui le melme pompose

dell’oblio hanno accartocciato delle

cortecce d’uovo

e dei tuorli mesti di abbandono.

Dirlo è riscattarli dall’oblio, e

insistere

sulla vocazione accomodante e

indulgente dell’arte. L’arte è dalla

mia parte,

e dirlo significa chiudere con le

pretestuose ciancie, e rendersi

devoto di quel monaco a

sinistra che prega con le mani

potate dal balcone astruso del mio

cuore.

“You felt crusched by the weight of

the old twentieth century. “(J.

Ashbery)

Stanze lente di cadenze stolte

Passi di vulcani spenti sotto le

attorte

Lame della mente

Trepida speranza di una foglia

che ringhia

Contro la smaniosa voglia di

singhiozzi

D’aereoplani, nani

Pensieri di fuoco fatuo

Amor che mai nato me

Prendi a me le mie stolide

Camicie d’arroganza in fosca

Danza strapazzate dal cumulo

Spezzato dei fonemi remi

Dell’augusta noia che mai invoglia

L’immagine di copertina è The shipwreck di William Turner, 1805