Nato a Como, di origine salentina, Alessandro Vergari vive da diversi anni a Bari dopo essersi laureato in Filosofia all'Università Statale di Milano, con una tesi sul rapporto tra guerra e giustizia. Una geografia complicata? Forse. Alessandro scrive recensioni e articoli su diversi blog. Cinema, letteratura, musica e cucina (in qualità di consumatore finale) le sue principali passioni. Ama il sole e il mare. Sulla politica attualmente non si pronuncia. "Ho dato abbastanza", queste le sue dichiarazioni in materia.

La scoperta, il dono, l’edera. Intervista a Davide Grittani, autore de “La rampicante”.

La rampicante , terzo romanzo di Davide Grittani pubblicato da LiberAria Editrice, narra le conseguenze etiche di un’inaspettata scoperta. C’è un ragazzo, Riccardo, che viene a contatto con la dolorosa verità riguardante le proprie origini. Riccardo rappresenta l’elemento spurio, la contraddizione, in un contesto familiare segnato da logiche di appartenenza quasi tribali e da un velenoso nichilismo valoriale. C’è “sor Cesare”, il gretto capofamiglia, incapace di modificare il proprio approccio alla vita. A contrasto, c’è una bambina, Edera, nomen omen , la vera rampicante. Nel romanzo incontriamo anche il tema della donazione degli organi. Un amico del protagonista muore in un incidente stradale e i suoi reni, espiantati, consentono al padre di Riccardo, il ricevente, di condurre un’esistenza normale, sconfiggendo il diabete che lo consuma da molti anni.

Parto da una tesi di Marcel Mauss. Secondo il grande etnologo, ogni dono implica una forte dose di libertà: a fronte di esso non vi sarebbe mai una garanzia di restituzione. Il controdono assume importanza in quanto libero. Donare permette di creare legami culturali, relazioni e senso in una comunità, che accresce così il proprio valore e la propria solidità. La donazione degli organi, tema centrale ne La rampicante, è forse la sublimazione del dono. Un’epocale conquista di civiltà, calata però in una società accartocciata su se stessa, timorosa di ringraziare. Davide, è questo lo sfondo, in un certo senso antropologico, del tuo romanzo? Quali esempi o che tipo umano avevi in mente quando hai immaginato il personaggio di sor Cesare?

«A me interessava, innanzi tutto, raccontare una storia compiuta, circolare, riconoscibile. Una storia con un capo e una coda, che non fosse frutto di elaborazioni personali o del rimescolamento di riflessioni concettuali che non servono a nessuno, secondo me. Una storia, con la sua potenza e la sua povertà. Ecco perché ho pescato dalla vita vera, dalla cronaca. La scintilla è scoccata grazie a un episodio avvenuto anni fa, all’inizio degli anni Novanta in Liguria. Il suicidio, inspiegabile e inatteso, di un uomo che pochi mesi prima aveva ricevuto in dono un cuore nuovo. Cos’era successo? Che nel frattempo quest’uomo aveva scoperto da chi veniva quel cuore. E aveva deciso di non essere la persona adatta, di non essere il destinatario adatto a quella rinascita poiché quel cuore apparteneva a un criminale con un percorso di vita molto diverso dal suo. Questo episodio ha aperto un mondo, per me. Senza fare la morale a nessuno, ho cercato di ricostruire cosa fosse successo. Ed ho costruito una storia che conducesse fino a quell’episodio. Da qui l’idea che solo una storia di provincia, una di quelle storiacce che vengono raccontate in tivù solo da “Un giorno in Pretura”, potesse accogliere una vicenda così cruenta, drammatica, tragica ma anche così piena di speranze, riflessioni e spazi per poter pensare un po’ più attentamente alla nostra vita.

Nel mio romanzo sor Cesare, quest’uomo così brutale ma anche così umano, così duro ma anche così dentro la vita di oggi, rappresentava l’unico possibile destinatario di un dono irripetibile come quello della seconda vita, della seconda chance espressa attraverso la donazione di un organo. Proprio per il forte contrasto che ne è alla base. La carezza offerta a un mostro. Il sorriso a un assassino. E la reazione, o meglio le aspettative di reazione da parte degli altri personaggi del romanzo e quindi dei Lettori del libro, rispetto al dono che sor Cesare riceve, sono la scintilla del libro. L’innesco della bomba, l’episodio che riporta alla fonte d’ispirazione. Tutto questo, ovviamente, doveva essere retto da una scrittura degna della mia scelta. Ma questo, almeno per la mia idea di narrativa, è abbastanza ovvio. Lo stile è una delle cose a cui sto particolarmente attento».

Riccardo scopre di essere stato adottato l’11 Settembre del 2001. Nelle ore in cui il mondo è incollato ai teleschermi, i Graziosi sono impegnati in attività del tutto private: il ragazzo non vede l’ora di mettere le mani sui giornaletti porno sequestrati dal padre, mentre il resto della famiglia se ne va beatamente al centro commerciale, un non-luogo. D’altronde ciò non meraviglia: Jean Baudrillard scrisse che reale e virtuale, con il crollo delle Torri, si sarebbero oramai confusi in un’unica indistinguibile entità. Perché hai scelto questo evento, traumatico per un’intera civiltà, come contrappunto storico-temporale della scoperta di Riccardo?

«Perché abbiamo sempre l’idea, soprattutto noi Occidentali, che le cose che stiamo facendo siano uniche, irripetibili, che meritino l’attenzione esclusiva del mondo e dell’umanità. Una dimostrazione lampante, direi, è la deriva estetica dei social, che sono nati come mezzi di comunicazione e sono diventati mezzi per manifestare, ciascuno a suo modo, le nostre solitudini. Collocare una scoperta così importante proprio l’11 settembre, nel giorno in cui l’umanità aveva un solo pensiero e una sola preoccupazione, serviva a ribadire – soprattutto a me stesso – che come diceva John Lennon la “vita è quello che succede mentre facciamo altro…”. E questa imprevedibilità racchiude la sua straordinaria bellezza della vita, la sua essenza inafferrabile. Questo ragazzo di 15 anni, che come ogni occidentale credeva di sapere perfettamente chi fosse e cosa volesse dalla vita, nel giro di qualche minuto si trova senza un mondo sotto i piedi e senza un albero genealogico credibile. E’ stato adottato, lo scopre brutalmente. Comincia da lì, un’altra vita. Un’altra idea di stare sulla terra. Esattamente come noi, dopo l’11 settembre 2001».

Il romanzo si apre e si chiude sul corpo ferito a morte di Riccardo. Questa circolarità è un potente detonatore narrativo. Il protagonista sogna spesso la dinamica di un incidente stradale. Tabacco, il suo amico, muore intrappolato in auto, con il muso piantato in un dirupo. Il piano abortito di Riccardo, che gli si ritorce contro a mo’ di perversa nemesi, prevede un tamponamento ai danni di sor Cesare. Illustri precedenti, vedi Crash di J.G. Ballard e la conseguente trasposizione filmica di David Cronenberg, indicano nell’automobile una sorta di protesi postumana, un superamento paradossale dei propri limiti. Si può affermare che il tuo romanzo sia innestato in un continuo gioco di contrasti, desiderio di fuga contro istinto di radicamento, velocità deformante contro lenta resistenza (la rampicante)?

«Non credo sia sbagliato evocarlo… così come non credo che sia solo un desiderio di fuga, quello che estirpa i protagonisti del mio romanzo dalle loro vite. Piuttosto, come dicevo in apertura, l’esigenza di compiere in maniera esaustiva il ciclo di una storia riconoscibile. Con un principio e una fine. La più grande lezione della tragedia shakespeariana consiste, a mio avviso, nella sua compiutezza, nella sua essenzialità e autonomia narrativa. Al di là dei messaggi, delle universali lezioni di vita che contiene, della morale e dello straordinario stile poetico con cui erano scritte, le tragedie shakespeariane sono un micro mondo perfettamente autonomo, compiuto, in cui sono riconoscibili un inizio, un contesto socio-economico, un contrasto di posizioni vitali, una scocca che innesca un’esplosione, e appunto una deflagrazione in cui emergono impetuose le depravazioni dell’amore, dell’odio, della vendetta, del denaro, dell’avidità, della stranezza, della speranza ma anche della incertezza del destino.

Ho visto decine di volte “Crash” di Cronenberg, così come ho visto e amato “Il pasto nudo”. Quella realtà è distante da quello che racconto io, ma sul fondo del bicchiere resta – come dicevi esattamente tu – lo stesso desiderio di uscire fuori da sé stessi per specchiarsi, per capirsi meglio, per leggere senza sbagliare il tempo in cui si vive e le cose a cui si va incontro. Riccardo Graziosi tenta di farlo organizzando il delitto del padre, la più classica delle azioni della tragedia shakespeariana, ma al momento dell’improvviso ravvedimento – cioè nel momento in cui esce da sé stesso, per leggere meglio il tempo e il destino che stava scrivendo – si rende conto di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato. Si concretizzano le trame assolutamente imprevedibili della rampicante».

Hai ambientato il tuo romanzo nelle Marche, zona del Fermano, cui dedichi pagine intrise di lirico disincanto. Marche di stoppie bruciate e di casali costruiti col marzapane. Marche d’incerta identità. La vocazione marittima è confutata dal richiamo dall’entroterra, il suolo fertile è ferito da pale eoliche. Terra bella e amara come la Puglia da cui tu provieni, solo meno aspra, più centrale negli italici equilibri, più arrotondata. Dalle Marche non si scappa, e chi scappa muore, senza il conforto di una lacrima. Davide, perché ti sei concentrato su questo lembo specifico di territorio? Che ruolo gioca il paesaggio nei tuoi romanzi?

«In un romanzo che si rispetti, secondo me la location non è importante ma determinante. In un romanzo come il mio, che aveva bisogno di una certa atmosfera, di una certa misurata claustrofobia, di una certa borghesia provinciale, di una certa afasia sociale che però alimenta un territorio molto ricco di risorse e di soldi, la location era praticamente metà della storia. L’ho cercata per bene, senza fretta. E alla fine ho capito che le Marche potevano assicurarmi quello che cercavo, le atmosfere che stavo raccontando. Delle Marche si sa poco, si scrive poco, si racconta poco. Esattamente come l’edera, vivono un po’ all’ombra del mondo, ma come le Marche l’edera compie straordinari prodigi lontana dal clamore, lontana dalla gente, lontana dal frastuono di tutti i giorni. Questo stare di lato al mondo, occupandolo senza quasi farne parte, consente alle Marche una libertà di pensiero che quasi nessun’altra regione italiana si può permettere. E poi la storia. E’ una storia che si presta perfettamente allo strato socio-culturale marchigiano, alla grande voglia di futuro all’interno di una terra che porta evidentissimi i segni del passato. In queste mura, tra questa gente, l’immobile terremoto dei personaggi di questo romanzo… ci stava benissimo. E devo dire, come molto raramente ammetto a me stesso, ho avuto ragione».

Edera, la bambina protagonista, soffre di paracusia. Sente voci nella sua testa e si esprime con un eloquio labirintico. È una specie di freak. Secondo il professor Semprini, psichiatra, Edera è un talento da coltivare, in prospettiva forse addirittura un genio. In un capitolo intitolato Le voci di dentro chiami in causa la potenza del tragico, il terremoto che ha percosso le Marche nel 2016, e leghi il dramma collettivo ad Edera in un parallelismo emblematico. Anche la bambina è tellurica, custode di impulsi che fanno paura. Raccontaci della bambina e del suo rapporto con Riccardo. Che rilievo dai alla parola ‘adottare’? Perché hai pensato a questa origine esistenziale, l’adozione appunto, per connotare il profilo dei personaggi alleati, Riccardo ed Edera?

«Quando il romanzo sembra aver raggiunto, all’interno della sua tensione drammatica, una specie di precario ma sostanziale equilibrio, avevo bisogno che intervenisse un elemento esterno a fare da spartiacque, un bivio che fosse riconoscibile. Edera, che poi incarna perfettamente la casualità della bellezza, si presta perfettamente a questo scopo. Una bambina che ascolta le voci degli altri, solo nella sua testa, porta nel romanzo un elemento di magia e mistero che spezza le abitudini della provincia. Questa bambina instaura con Riccardo un rapporto di mutuo soccorso, come se esseri con la stessa sensibilità si riconoscessero perché in fondo condannati alla stessa solitudine. A questo punto del romanzo irrompe nuovamente il grande tema dell’adozione, che aveva aperto la storia raccontando nelle prime pagine quella di Riccardo. Edera entra nel menage famigliare di Riccardo e Sara (la moglie che nel frattempo Riccardo ha incontrato) con grande forza, dettando automaticamente l’istinto e la necessità di una adozione.

Io ho grande rispetto e anche un po’ di ammirazione per chi decide di fare questa scelta, perché è una scelta di responsabilità e soprattutto una straordinaria forma di donazione. Donazione della propria vita, del proprio tempo, della propria felicità e della propria sensibilità ad un’altra persona. Quello su cui spesso mi interrogo, da uomo e non da scrittore, è lo stato di consapevolezza di questo gesto: quanto è dentro l’animo di chi decide di adottare, e quanto invece – e per quanto tempo? – viene schiacciato dall’atto egoistico di doversi “donare” a tutti i costi un figlio. Come un oggetto, come un regalo. Il tema è molto ampio e delicato. Ma siccome ho scelto la strada del coraggio, soprattutto quando scrivo, non posso sottrarmi proprio adesso.

Io credo nella eroica missione dei genitori, che ogni giorni sono chiamati a prestare un po’ della propria vita a persone che dipendono totalmente da loro. Non credo invece, anzi ne rifuggo in tutti i modi possibili, da chi crede che la condizione dei genitori sia una condizione necessaria per vivere meglio (dove sta scritto?) o peggio ancora da chi crede che solo i genitori vedano e vivano il mondo meglio degli altri (ma quando?). Detto ciò, sono padre di tre figli di 18, 10 e 6 anni».

“Saranno stati l’Adriatico che gli correva di fianco, quel sole raffinato che sa essere principio e affermazione; la solennità dei viaggi in auto, che più di qualsiasi altro mezzo evocano grandi pensieri, cui solitamente seguono ignobili azioni; saranno state le canzoni, che dentro le auto si annodano come anguille, si sovrappongono senza schiacciarsi, senza soffocarsi tra loro, come chiede la democrazia della musica, in cui (quasi) tutto riesce a convivere con la stessa dignità. Saranno state quelle cose, ma Riccardo prese un impegno per il resto dei suoi giorni”. Fascinazioni letterarie le tue, che rimandano alle atmosfere di certi racconti di Gianni Celati. Qui conficchi nella pagina la parola “impegno”. E con l’impegno viene da sé la responsabilità. Chi sono oggi, secondo te, i responsabili e, per converso, gli irresponsabili? Quali doti, o caratteristiche, richiameresti per identificarli?

«Non riesco a individuare responsabili e irresponsabili, non credo di esserne capace. Del resto ci sono persone che, per scelta, non si assumono responsabilità e vivono benissimo. Riesco invece a individuare, con estrema esattezza, la facilità e la solitudine di chi ha scelto di non crescere, di non mutare nel tempo. Di assomigliare sempre all’immagine di sé stesso, di ambire a cristallizzare la vita con l’intenzione di bloccare la felicità. E questo mi spaventa un po’ di più, perché attiene alla degenerazione sociale di cui dicevo prima. Alla deriva dei social media, che hanno fatto emergere la parte peggiore delle persone perché ha a che fare con la vanità, con l’affermazione delle proprie esigenze e con una diffusa mediocrità.

Ogni giorno, come tutte le persone normali, prendo e cerco di mantenere degli impegni. Quello che si chiede Riccardo nel romanzo è proprio questo. Lui cerca di capire quale sia il suo, quale ruolo è stato chiamato a giocare dentro una vita piena di incertezze (a cominciare dalle sue origini biologiche) e di frustrazioni (in riferimento alla famiglia conservatrice e truffaldina in cui vive). Assumersi un impegno è una cosa molto bella, molto nobile per certi versi. E al contempo rappresenta un atto di generosità, nei confronti dei destinatari di questo impegno. Viceversa assisto quotidianamente a persone che non hanno mai preso un impegno in vita loro eppure pontificano, giudicano, parlano, commentano il mondo chiedendo a gran voce di cambiarlo. Mi chiedo con quale diritto, ma questa forse è un’altra storia… ».

Non c’è consolazione tra le righe del tuo romanzo né concedi, mai, facili appigli al lettore. I tuoi personaggi sono ieratici, giacomettiani, incarnati in corpi sottoposti a perdurante tensione. Le relazioni tra gli uomini sono affilate, rispondenti a regole sociali spesso sordide. La morte di Giovanna, la madre di Riccardo, è un trapasso narrato con magistrale asciuttezza. L’esistenza appare nuda, fragile, esposta al pericolo, pronta a spegnersi in un battito di ciglia. Andrea Purgatori ha parlato, a proposito del tuo timbro stilistico, di “una voce raffinata e cinica”. Ti rivedi in questa definizione?

«Devo dire che tutti i commenti e le recensioni ricevute parlano, quasi all’unisono, della originale voce narrativa e della sua presunta raffinatezza. Questa cosa mi riempe di soddisfazione e gioia, perché sono uno che passa giornate intere a interrogarsi sulla necessità di un aggettivo o sulla musicalità di un periodo. Scrivere equivale a suonare, si compone uno spartito. Se sta in piedi, se ha dignità di essere seguito … il primo a saperlo è l’autore. Tutto il resto è falsa modestia, chi scrive lo sa. Sapevo di aver scritto un romanzo che poteva essere accolto in un certo modo, ma i continui riferimenti alla qualità della scrittura … sinceramente mi ripagano di tutta la fatica (tanta!) fatta durante gli oltre due anni di stesura».

Davide, con il tuo progetto “Written in Italy” hai creato una biblioteca itinerante di testi italiani tradotti in lingua straniera. Un’iniziativa affascinante e originale che tutti dovrebbero conoscere. In quale lingua ti piacerebbe che venisse tradotto La rampicante?

«Non so perché, ma in Portoghese. O meglio lo so, avendo trascinato decine e decine di opere di autori italiani, tradotte anche in Portoghese, in giro per il mondo. Credo sia la lingua più sensuale al mondo, la più sinuosa, snodabile, poetica. E una storia come la mia, in Portoghese, sarebbe bellissima. Ma chiunque la voglia tradurre, ovviamente, sarà accolto come merita: con le attenzioni e il rispetto che si devono a chi trasferisce una storia da una lingua ad un’altra, da una identità di popolo a un’altra».

(Davide Grittani, La rampicante, LiberAria, 2018)

Davide Grittani (Foggia, 1970) è giornalista e scrittore. Dal 2006 al 2016 ha curato la prima mostra internazionale della letteratura italiana tradotta all’estero Written in Italy, che ha raccolto ed esposto (in 16 Paesi di tutti i Continenti) una biblioteca di oltre 3200 traduzioni in rappresentanza di 800 autori italiani dal 200 ad oggi, 56 lingue e 24 alfabeti: per Written in Italy si è aggiudicato il Premio Maria Grazia Cutuli 2010. Ha pubblicato il romanzo Rondò. Storia d’amore, tarocchi e vino (Transeuropa 1998, allora diretta da Massimo Canalini) e E invece io (Biblioteca del Vascello 2016, Torino) presentato in concorso al Premio Strega 2017. Della sua scrittura e delle sue attività si sono occupati a vario titolo Alessandro PivaGiorgio Barberi SquarottiGiampaolo RugarliDacia MarainiEttore MoCorrado AugiasMarcello SorgiWanda MarascoAndrea Purgatori, Massimo Canalini, Fabio GedaRoberto Pazzi, Stefano Petrocchi, Mario Sansone e Furio ColomboLa rampicante (LiberAria Editrice 2018, Bari) è il suo terzo romanzo. 

La rampicante Book Cover La rampicante
Davide Grittani
Narrativa
LiberAria Editrice
2018
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