Ecci all’appuntamento domenicale con il rilancio di un articolo dei cugini de L’Arenone

Nuvole tarocche. Fabrizio De André ti voglio bene

33 Ghiri. Rubrica atemporale di sensazioni uditive, impressioni oniriche, note più o meno note, vagiti musicali e indigesti manicaretti fonici

Citazioni e social. In spiaggia e in edicola. De André ovunque. Tributi e feste di paese. Libri e ristampe. De André dappertutto. Il vaso è colmo. Fermiamoci.

Fortunatamente l’ho scoperto tardi o almeno dopo tanti altri musicisti. Faber è quell’artista che ti rapisce al volo, ma se riesci a capirlo, passano diverse stagioni, spesso troppe. Ancora oggi mi perdo tra quelle melodie e mi ritrovo a decifrare le sue parole, talvolta criptiche e spesso barocche.

Non so se sia più facile scorgere nei vostri tanti tributi post mortem un filo di rispetto o un mare impetuoso di viscosa superficialità. Tutto questo mi porta a provare una rabbia acerba e molto intima, quella stessa che mi ha permesso di distinguere cosa significhi saper “cantare il diverso”, a differenza di riempirsi la bocca con il meschino verbo della solidarietà di maniera.

Tutti siete liberi di professarvi amici di Fabrizio, ma avete la consapevolezza che Fabrizio possa ridere di voi? Nessuno v’impedisce di dipingere un uomo con quella dovizia di particolari e con quel rispetto sacro che si deve solo ai santi e ai grandi maestri, ma non vi viene mai il dubbio che Fabrizio De André non abbia alcuna voglia di essere ricordato come un monolite di saggezza e perfezione? Sono convinto, senza averne alcun titolo, che Faber preferisca essere stimato per la sua fragilità e per la sua immensa umanità, oltre ogni merito artistico, intellettuale e filosofico.

Potete riempire i locali e le piazze con le sue note e le sue liriche, ne avete la facoltà, ma non riempirete mai il cuore di chi oggi, non potendo fare altrimenti, De André lo vive nel privato delle proprie stanze, fischiettando un’aria che talvolta odora di Provenza e qualche altra fa male come carne viva su un letto di vetro e cemento.

De André non dà voce agli “ultimi”, semplicemente li anima, quando tutti voi vi ostinate a renderli invisibili, o vi ricordate di loro solamente all’ombra di in un sottopasso che odora di urina, tra la tangenziale e la ferrovia, con una sudicia banconota da cinquanta euro in mano. Poi di corsa, tutti a casa, a baciar consorti e pargoli giulivi. Fabrizio lo sa.

Rido. Rido in modo sguaiato nel pensare Fabrizio intento a leggere le vostre democratiche verità arroganti, rese possibili da mondi virtuali più tenebrosi del buio più profondo. Poi ogni tanto una sua bella citazione, e giù altre stronzate violente e minacciose, dall’alto di uno scranno che si tiene in piedi su una tastiera e un sontuoso smartphone comprato a rate. Quante risate e quanto amaro in bocca.

Mastica e sputa.

Insomma, alla fine ci son cascato anch’io e voglio chiederti scusa. Signor Fabrizio De André, scusa la mia ingenua arroganza nell’aver cercato di metterti al centro di questo mio angusto e traballante universo, senza averne alcun talento. Tante cose mi hai insegnato e su tutte il tuo concetto di libertà. Allora, che sia il mio un peccato di libertà e che tu possa essere clemente con questo tuo rispettoso “vicino di casa”, fosse solo perché ti voglio sinceramente bene.

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