Carmine Maffei (Avellino, 1981). Musicista, autore e compositore, fonda la rock band Inseedia con cui pubblica Oltre il Muro (2005) e Secrets From The Room (2007 - Nomadism Records). Nel 2008 dà vita al suo attuale progetto musicale, gli Ordita Trama. Nel 2010 esce il disco "Ordita Trama" e nel 2017 Basta Soltanto Resistere, oltre al singolo L'Ignoto Ideale (Label Music). Appassionato da sempre di letteratura, ama leggere e collezionare libri, soprattutto romanzi. Attratto da tutto ciò che significa "cultura", ha un debole indiscusso per gli scrittori. Vive a Solofra (AV) con la moglie e due bimbi. Lavora nel settore conciario. Collabora con L'Ottavo dal novembre 2017.

Francesco Brusco, musicista, docente di Storia dell’Arte, studioso di popular music, quindi scrittore e saggista delle tematiche poc’anzi espresse, ha concesso un bis davvero stupefacente, sì certo, e a tratti con sfumature di acido lisergico intriso di storia, leggenda, verità, India, Abbey Road Studios, Londra, Liverpool e Sessantotto.
Esatto, si parla ancora dei Beatles, e forse non basterebbe una vita per scriverci sempre qualcosa di nuovo che racconti la band più famosa al mondo, con gli aneddoti più folgoranti espressi da semplici ammiratori, oltre che, come in questo caso, da pareri più illustri.
Era successo già l’anno scorso, con un saggio tributo all’album Sgt. Pepper, per i suoi cinquant’anni e oggi, per lo stesso compleanno, Brusco ci regala di nuovo un piccolo capolavoro d’interesse storico e culturale, oltre che di concreta vicinanza musicale, scrivendo di The Beatles, meglio conosciuto come The White Album, concatenandolo nel contesto rivoluzionario e reazionario di quell’anno infuocato di passioni sbocciate dal nuovo marxismo-leninismo, con una presa di posizione dei Fab Four a favore della working class da cui erano nati, ed un’apertura mentale a tutto ciò che sarebbe potuto essere definito musica, senza limiti di tempo e spazio, oltre che generi.
Il saggio in questione è Revolution – il ’68 dei Beatles (Arcana), che si apre con una brillante introduzione del giornalista musicale Donato Zoppo, il quale sostiene che “tra i favolosi fulgori della Summer of Love e il climax di Woodstock (…) c’è un anno di contestazione e transizione, di barricate e pause di ripensamento (…) nel quale rock, blues, elettronica e folk convivono magnificamente anche in un solo –ma doppio- disco bianco”.
E’ proprio vero, allora, che se il disco precedente aveva aperto le porte al progressive, col White Album parliamo di una sorta di world music, un abbraccio a ogni proposta compositiva che faccia innamorare un ascoltatore nelle varie fasi della vita, nei vari stati d’animo e perché no, offrendogli la giusta visuale al climax politico che ha fondamenti più radicali, designando un’autentica presa di posizione, dai sit in alle lotte in strada
Ma è anche vero che la realizzazione di questo doppio album avviene in un periodo delicato in cui si trova la band, dove fortissime spaccature all’interno di essa, vuoi per l’improvviso lutto – la scomparsa del manager Brian Epstein un anno prima-, vuoi per reazioni alla delusione della vita privata, come la rottura tra John e la moglie Cynthia e il successivo attaccamento di Lennon alla figura di Yoko Ono; vuoi per momenti di ira, come il breve allontanamento di Ringo in seguito ad uno screzio in studio con Paul; vuoi per la ricreazione di uno spazio personale di ognuno, in questo caso come la ribalta del Quiet One, ossia George, che inizia ad ostentare una presa di posizione che negli anni successivi si rivelerà geniale.
Condizione, quest’ultima, che lo porterà ad un avvicinamento concreto e solido, rispetto agli altri tre, agli insegnamenti di Maharishi Mahesh Yogi, il guru spirito guida che accompagnerà i Fab Four in una dimensione religiosa ma a carattere introspettivo, elargita al rispetto del proprio essere, che aprirà le porte ad un turismo occidentale propenso alle nuove tendenze (almeno per l’Occidente) pervenute dall’India.
Evidente l’arte narrativa, in sposa alla disciplina professionale di Francesco Brusco, quando ci descrive tutti gli avvenimenti sopraccitati e molti altri ancora, che hanno esasperato ma reso unico il White Album, soprattutto quando ci dice:
“Ma il colore, per essere percepito, richiede un fascio di luce che colpisca l’oggetto. In cinquant’anni di vita, ogni ascolto di quest’album è una luce differente, raggi emessi dalle innumerevoli situazioni, tutte altrettanto uniche e irripetibili, in cui la fruizione fa rivivere l’opera d’arte. In un capolavoro come questo, la somma dei trenta colori diversi che lo compongono, non poteva che creare il bianco”.
Difatti, fortemente ispirata al capolavoro beatlesiano sessantottino, è bianca anch’essa, la copertina di questo libro che ci farà concentrare di più sulle differenze cromatiche che andremo a scorgere nello sfogliare un pezzo di storia, a cinquant’anni di distanza.

Francesco, il ’68 fu un anno cruciale, ricco di cambiamenti drastici, saturo d’impegni a favore del proletariato in confronto alle classi dirigenti in tutto l’Occidente. E fu proprio in quell’anno che s’impresse una distinzione più netta nella band più famosa al mondo. Si tratta di una coincidenza, secondo te?

“Non del tutto. Se è vero che le divisioni all’interno della band sono in buona parte indipendenti dai più importanti episodi di quell’anno, è altrettanto evidente come alcune delle cesure più nette avvengano a causa di tensioni comuni al resto del mondo, nodi che vengono simultaneamente al pettine in quei dodici mesi. Il libro si apre con la famosa frase di Aaron Copland: “Se volete conoscere gli anni Sessanta, ascoltate la musica dei Beatles”. La loro storia, in moltissimi aspetti, rappresenta una versione in scala ridotta della Storia, con la “S” maiuscola, di quel decennio”.

Un anno prima scompare in maniera prematura Brian Epstein, manager dei Beatles e quasi una figura paterna per Lennon. Eppure a questo punto sorge un dubbio, nel caso questa disgrazia non fosse avvenuta: si sarebbe attenuata questa spaccatura già evidente tra i membri oppure, individualmente maturati questi ultimi, sarebbe stato comunque impossibile andare avanti in armonia?

“La morte di Epstein ha senz’altro accelerato la dissoluzione dei quattro elementi, che da quel momento sono apparsi come continenti alla deriva dopo la disgregazione della Pangea. Ma probabilmente il suo ruolo sarebbe stato comunque progressivamente marginale dopo la fine dei tour (il suo contratto, il cui rinnovo appariva tutt’altro che certo, era in scadenza a fine ‘67) e forse la spaccatura sarebbe stata soltanto rinviata di qualche mese”.

La figura di Maharishi Mahesh Yogi sembra sia stata fondamentale per la preparazione spirituale e altresì musicale di una nuova dimensione adottata dai Fab Four. Eppure ci appare soltanto come una conseguenza dei loro viaggi lisergici che li rese più open minded di quanto già lo fossero, a parte la presa di posizione di George Harrison…

“George Harrison era una persona di rara profondità, e il suo ruolo nella divulgazione in Occidente della musica e della filosofia indiana è di importanza cruciale; mi piace pensare a lui come a un profeta, un evangelista dei nostri tempi. Ma come ho sostenuto sia in Revolution che in Estetica di Sgt. Pepper, nel palpitante melting-pot socioculturale della seconda metà degli anni Sessanta, esperienza lisergica e ricerca spirituale non erano del tutto in antitesi, anzi. Lo stesso Albert Hoffmann – il chimico svizzero che per primo aveva sintetizzato l’LSD – si era soffermato in The Road to Eleusis sulle notevoli analogie fra gli effetti dell’acido, i culti allucinogeni del Messico e i cosiddetti misteri eleusini, antichi riti greci d’iniziazione. Anche in questo i Beatles riassunsero – e ispirarono – i comportamenti di una larga fetta della loro generazione. Entrambe le esperienze trovavano la loro raison d’être nel bisogno di elevazione mentale e spirituale. I risultati dell’uno e dell’altro percorso furono ovviamente piuttosto diversi…”

Ci appaiono, nel tuo libro, diverse interpretazioni di come i Beatles siano stati catalogati secondo l’ideologia fortemente socialista di quell’anno. Seppur la musica abbatta barriere politiche ed esistenziali, quanto era realmente a sinistra questa band? Lo sarebbero sempre stati o fu una conseguenza dei movimenti studenteschi ed operai?

“Figli della working class britannica, i Beatles pre-Sessantotto (ad eccezione di Taxman) non avevano mai espresso posizioni politiche nette, se non nei confronti della guerra, trovandosi in pieno accordo solo con il versante pacifista della cosiddetta Psychedelic Left. E’ anzi proprio in quel 1968 che la New Left, la parte più radicale del movimento, inizia ad accusarli aspramente per il loro disimpegno. Dapprima si fa largo la delusione, il senso di tradimento per l’assenza della loro voce nel coro di protesta levatosi in quei mesi. In seguito, quando in Revolution Lennon esprime tutti i suoi dubbi (alcuni anche condivisibili, a mio parere) sulle modalità d’azione messe in campo dai maoisti, lo scontro si fa ben più acceso. Non solo dalle pagine delle riviste militanti di sinistra, ma dagli stessi artisti maggiormente coinvolti nella protesta – nel libro si cita il biasimo espresso da Nina Simone e Jean-Luc Godard – giungono le censure più agguerrite.
In quel periodo, anche sul versante politico si accentua il confronto con i Rolling Stones, ma al di là della facciata “ribelle” questi non erano certo più politicamente impegnati dei ragazzi di Liverpool”.

Restando a tema, il brano Revolution 9, per l’epoca un’avant-garde atipica, contiene espliciti frammenti rilevati dai rumori delle lotte di strada studentesche, e sembra sia la composizione più vicina al suo tempo, a differenza della più famosa Revolution 1, che per alcuni fu bollata come un capriccio di quattro miliardari che cercavano appiglio in situazioni che poco li riguardavano. Cosa ne pensi?

“Revolution 9 è un capitolo importantissimo nell’opera dei Beatles e di Lennon in particolare. E’ innanzitutto il brano d’avanguardia più diffuso della storia, avendo raggiunto un bacino d’utenza infinitamente più ampio di quello dei vari Stockhausen, Berio, Cage. Lennon si dimostra inoltre assai più perspicace nelle sue premonizioni sulla rivoluzione oltre a evidenziare, pur in un lavoro di musique concrète come questo, un senso della forma pop assolutamente innato. Nelle intenzioni di Lennon, Revolution 9 doveva essere un “quadro sonoro della Rivoluzione”, ed egli riesce benissimo a trasmettere le pulsioni più inconsce e gli umori più profondi di quei giorni. Raramente gli stessi appassionati dei Beatles si soffermano su questo brano che al contrario resta secondo me un’esperienza insostituibile, una delle loro azioni più significative in campo socioculturale…Benché un tantino sinistra”!

Eppure Revolution dà vita alla triade Revolution – Power to the people – Working class hero di Lennon. Quindi molti pregiudizi risultarono errati rispetto alla nuova posizione radicale di John…

“Estremamente cangiante per sua natura, il Lennon di Revolution, che declama il suo sermone sulla rivolta dall’alto dell’Himalaya, è ben diverso da quello che scende in strada al tempo di Power to the People e Working Class Hero. Questi ultimi due brani, espliciti inni a favore del movimento, suggellano il suo momento di massima adesione a quelle istanze, con un attivismo svolto in prima persona che gli causerà non pochi problemi con l’FBI e la CIA. Oltre alle sue convinzioni (non sempre davvero convinte…) e all’influsso di Yoko, va menzionato l’apporto che in questa sua maturazione politica offrono gli stessi personaggi che lo avevano aspramente criticato per Revolution. Mi preme citare in primis Tariq Alì, attivista della New Left, legato da sincera amicizia a John e Yoko; il suo Street Fighting Years, appassionante racconto di quella stagione, è stato un indispensabile sguardo dall’interno sulle vicende dei movimenti radicali inglesi nella seconda metà dei Sessanta”.

Per i Beatles, il ’68 apre anche le prime esperienze individuali dei relativi componenti. E’ il caso di Two Virgins di Lennon e Yoko Ono e la ribalta del Quiet One, il sempre più determinato Harrison, con Wonderwall. Ognuno iniziava a crearsi il suo spazio, quindi. Secondo i tuoi studi, la spaccatura era già iniziata oppure era un modo per ognuno di prendere respiro?

“Senza ombra di dubbio il 1968 è l’anno in cui questa spaccatura viene alla luce, pur avendo origine quanto meno dal tour del 1966. La faglia sismica dei Beatles si muove con scosse che vanno in quattro direzioni diverse. Paul, dopo la morte di Brian Epstein, aveva ormai esibito in pieno le sue velleità di leadership. John, in un primo momento addolcito dall’esperienza dell’Lsd, torna a rivendicare quello stesso ruolo proprio nel 1968, dopo aver abbandonato i sogni lisergici ed esser stato corroborato dal soggiorno indiano e dall’influenza della Ono. Fra i due litiganti Harrison si era guadagnato, proprio attraverso l’ascendente spirituale con cui aveva condotto tutto il gruppo a Rishikesh, un ruolo temporaneo di guida. Ancor più significativa, dal punto di vista musicale, la sua meravigliosa fioritura come autore. Il povero Ringo, stufo delle mosche dell’ashram indiano e delle crescenti discussioni all’interno della band, sarà il primo a perdere le staffe. Il fatto che anche la sua infinita pazienza fosse stata portata al limite la dice lunga sull’atmosfera regnante ad Abbey Road a partire dalla primavera del ’68”.

Il 17 luglio di cinquant’anni fa ci fu la prima del film beatlesiano Yellow Submarine, capolavoro cartoon misto a un trip lisergico e un’Odissea, eppure i ragazzi della band non parteciparono quasi per niente al progetto, rimpiangendone il significato negli anni a venire. Cosa stava succedendo?

“Stava succedendo che quattro ragazzi non ancora trentenni, a un passo dall’esaurimento nervoso, avevano semplicemente un immane bisogno di riposo!
L’impegno per Yellow Submarine, film animato per il quale non era neppure richiesta (per la loro gioia) la presenza fisica della band, era stato serenamente delegato alla produzione di Al Brodax, la regia di George Dunning, la penna di Lee Minoff e i colori di Heinz Eidelmann e colleghi. L’opera inoltre era già in gran ritardo rispetto all’estetica beatlesiana: essa riprendeva il sogno di Pepperland nel momento in cui questo era quanto di più lontano immaginabile per una band ormai impegnata in un ritorno alle origini, con la franchezza di quello che sarà il White Album.
Tuttavia il risultato verrà unanimemente acclamato; proprio di recente si è celebrato il 50° anniversario di quello che resta un caposaldo nella storia del cinema d’animazione. I Beatles, pur lavandosene le mani in quei mesi, saranno sempre ben felici di restare associati all’immaginario ricreato dal film”.

Ringo che abbandona per un po’ il gruppo, Paul quasi in veste di nuovo manager, John rapito dal discusso fascino di Yoko Ono, George che comincia a farsi valere: sembrerebbe impossibile, ma anche da tutto ciò nacque il capolavoro White Album. Secondo la tua visuale da musicista, oltre che di scrittore, oggi sarebbe possibile una realtà del genere in una band famosa in crisi o farebbero tutto il lavoro i produttori, con i plug in, le drum machines e i sintetizzatori?

“L’arte è sempre, intrinsecamente, legata non solo al proprio tempo, ma anche ai mezzi espressivi che da quel tempo le vengono concessi. I metodi di registrazione dei Beatles oggi possono apparirci antiquati ¬– e in parte lo sono – ma furono essenziali ingredienti della loro estetica, soprattutto nel biennio 1966-’68. Il medium non è un elemento neutro e le modalità di lavorazione odierne si innestano su stili espressivi diversi da quelli dei Beatles e del loro periodo. Quanto al realizzare capolavori nel bel mezzo di una crisi umana e relazionale all’interno di un gruppo, è una situazione meno rara di quello che si possa pensare; anzi, spesso proprio dalla tensione interna nasce l’arte più vibrante”.

Ed ora una domanda fuori tema e forse un po’ troppo scontata ma dovuta: se oggi Lennon ed Harrison fossero ancora tra noi, sarebbe stato possibile vederli suonare ancora insieme un’ultima volta?

“Nessuno può dirlo con certezza, ma penso che sarebbe stato probabile. Dal 1975 fino alla tragica morte di Lennon, McCartney aveva tentato vari riavvicinamenti. Dapprima i due sembrarono sul punto di fare un viaggio a New Orleans dove Paul stava registrando con i Wings. Un anno dopo, il 24 aprile del 1976 i due amici si incontrarono per l’ultima volta, trascorrendo la serata a guardare il Saturday Night Live: proprio da lì, in diretta tv, il conduttore Lorne Michaels offrì 3000 dollari ai due qualora si fossero presentati lì per una pur breve reunion. John e Paul pensarono seriamente di andare, dato che lo studio era a pochi passi dalla casa newyorkese di Lennon, ma la loro pigrizia ebbe la meglio. Ci fu poi l’occasione del matrimonio di Eric Clapton con Pattie Boyd: Paul, George e Ringo suonarono alcuni brani con Slowhand…purtroppo John non era fra gli invitati. Infine, nel 1995, la storica reunion “virtuale” con i tre superstiti che completano due inediti di Lennon; non una grande aggiunta al loro catalogo, ma di certo qualcosa di emozionante (a tratti in maniera quasi macabra) per tutti i loro appassionati. Personalmente guardo sempre con sospetto alle reunion, specie quando accadono con gran ritardo, diventando patetiche riesumazioni. I Beatles sono stati tra i pochissimi gruppi a resistere alla tentazione di riformare la band e questo secondo me ha contribuito non poco a cristallizzare la loro immagine nell’Olimpo musicale e culturale del secolo scorso”.

Articolo e intervista a cura di Carmine Maffei

Revolution - il '68 dei Beatles Book Cover Revolution - il '68 dei Beatles
Francesco Brusco
Musica, storia gruppi musicali
Arcana
2018