Carmine Maffei (Avellino, 1981). Musicista, autore e compositore, fonda la rock band Inseedia con cui pubblica Oltre il Muro (2005) e Secrets From The Room (2007 - Nomadism Records). Nel 2008 dà vita al suo attuale progetto musicale, gli Ordita Trama. Nel 2010 esce il disco "Ordita Trama" e nel 2017 Basta Soltanto Resistere, oltre al singolo L'Ignoto Ideale (Label Music). Appassionato da sempre di letteratura, ama leggere e collezionare libri, soprattutto romanzi. Attratto da tutto ciò che significa "cultura", ha un debole indiscusso per gli scrittori. Vive a Solofra (AV) con la moglie e due bimbi. Lavora nel settore conciario. Collabora con L'Ottavo dal novembre 2017.

Venti anni fa, il 9 settembre 1998, il pianto del mondo della cultura si associò al mio, ma per due motivi completamente diversi.
Vivevo in quei giorni il mio primo amore e non amore, qualcosa d’intenso e mai avvenuto prima di allora: mi sembrava di camminare a una spanna da terra ma, quando lei mi disse che no, non le piacevo e che no, tra noi non avrebbe funzionato, accusai le prime ferite, quelle che appaiono dapprima incurabili, irremovibili e che la testardaggine di un ragazzino come me preferiva crogiolarvisi dentro anziché medicarsele. Seratacce, sigarette consumate al buio sotto casa e…canzoni. Sì, perché fu la prima volta anche per quello: fu in quei giorni che ogni singola nota, ogni singola parola di un brano musicale sembrava fosse stata scritta per quel momento, come se qualcuno al di là degli altoparlanti, delle cuffie, stesse spiegandomi in maniera palese ciò che avrei voluto che gli altri mi dicessero. Mi sentivo nel giusto e appagato soltanto in quei pochi minuti. Quegli istanti per me si chiamarono “Lucio Battisti”.

Sì, Lucio se n’era andato così, all’improvviso e la radio e la televisione intensificavano quella perdita con la messa in onda di speciali, in cui, ovvio, le uniche protagoniste erano anzitutto le canzoni, unite alle parole di Giulio Rapetti, in arte Mogol. Che anno è? Che giorno è? pensavo, questo è il tempo di vivere con te (ma ovvio, no?).
E poi ancora tu? Ma non dovevamo vederci più? oppure Ma quante braccia ti hanno stretto tu lo sai per diventar quel che sei…(mondo infame!!) Ami ancora Elisa?( Sì!)
E quando nove anni dopo, nei giorni dell’anniversario, una ragazza omonima (guarda caso!) mi disse che sì, le piacevo e che sì, tra noi avrebbe funzionato e, che addirittura sì, avrebbe accorciato la distanza di cinquanta chilometri che ci disuniva, perché avrebbe maturato la sua carriera accanto a me, allora pensai che quella donna sarebbe diventata mia moglie: un’acqua azzurra e chiara che con le mani sarei riuscito finalmente a bere.
E quando, pochi anni dopo, il 29 settembre (29 settembre!!) nacque il nostro primogenito, e io in auto, poco prima, stavo ascoltando senza sosta l’album L’Apparenza, alternato a Storia di un minuto della Premiata Forneria Marconi, in cui risaltava la stupenda Impressioni di settembre (!), capii che Lucio mi aveva assistito in tutti quegli anni, e anche se all’inizio mi aveva fatto piangere esponendomi sentimenti che mi struggevano, ora era lì a vantarsi della conquista che insieme, io e lui, ci eravamo preposti, sottolineandomi la felicità.

Per Battisti, a vent’anni dalla sua scomparsa, ho pensato di leggere qualcosa di molto interessante dedicata a lui, e la mia curiosità è caduta su Amore, libertà e censura – il 1971 di Lucio Battisti (Aereostella) di Donato Zoppo, saggio biografico dedicato in particolare all’album Amore e non amore, e pubblicato nel 2011, a quarant’anni esatti dall’uscita del suddetto capolavoro discografico.
Ma chi era davvero Lucio Battisti? O meglio, che cosa è stato Lucio Battisti?
“Non vivo né in funzione dell’applauso, né dell’essere riconosciuto per strada. Per ora mi va bene…” dirà nel 1969, oppure un anno dopo “Oggi l’immagine tradizionale del cantante che canta con voce perfetta è un’immagine superata. La gente vuole altro. Vuole qualcosa di più e di diverso. Qualcosa in grado di procurarti quel famoso brivido. Una sensazione che in mezzo a tanta differenza è importante dare”.

E pensare che si era fatto conoscere già dal pubblico, che lo amava, e il cui sentimento era contraccambiato, ma che forse, ogni volta non si equiparava al brano successivo, sarebbe a dire quel qualcosa che tutti avrebbero atteso come un ritorno alle personali aspettative, e invece…
Canzone che puntualmente fuorviava la critica, perché sempre un passo avanti, quindi spiazzava i pronostici, in cui s’inventava nuove e mai scontate melodie le quali, rafforzate dalla poetica rivoluzionaria dal sapore vagamente light, radiofriendly di Mogol, sbaragliavano le barriere degli ascolti tradizionali aggiudicandosi curiosità sempre nuove, tanto nei brani più difficili (es. Le tre verità) quanto in quelli dall’apparente insegna della semplicità (es. La canzone del sole).
Lucio era un artista così imprevedibile che nell’estate del 1970, dopo un tour, pose improvvisamente fine alla sua attività concertistica, periodo che coincise con la rottura con la Ricordi e l’inizio dell’avventura in Numero Uno, l’etichetta fondata assieme a Mogol.

Sì, certo, anche De Andrè si decise a suonare in pubblico solo a metà degli anni Settanta, invece oltremanica, i Beatles decisero di terminare i concerti nel 1966, anche se ognuno di loro, in seguito alla volontà di sciogliersi, avrebbe comunque continuato a farli e forse, tra i quattro, soltanto Lennon avrebbe mantenuto di più la promessa, con sporadiche comparse.
Perché questo? Be’, oltre a una politica personale occorrerebbe dire che un senso di appagamento, sia nelle ingenti quote dei diritti d’autore che nella precisione di un lavoro inciso e non soltanto “suonato”, non sarebbe stato intaccato se esposto alla mercé di chi dal vivo avrebbe puntato il dito o, al contrario, di chi avrebbe sminuito il sacrificio della trasportazione di una tracklist dal lavoro meticoloso dello studio di registrazione, tutto trasferito su un palcoscenico. Oppure semplice orgoglio? Oppure la voglia di non esporsi troppo per evitare che la propria immagine cozzasse con il messaggio che si stava elargendo? Battisti era tutto questo e molto altro.

Si trova qui la quintessenza del suo genio, e la sua filosofia fu esposta fin dalla scissione con la Ricordi, che slittava l’uscita del suo primo 33 giri per eccellenza, Amore e non amore, che tanto si discostava dai modelli che l’etichetta era riuscita ad accaparrarsi per montare su la loro macchina “mangia successi”, dove la forza espressiva del musicista reatino era già al massimo delle sue capacità intellettive e compositive, ma che avrebbe esposto a un maggiore rischio di incomunicabilità il giro di affari che interessava soltanto le sue passate volontà, e non le sue future ambizioni.
“Non voglio essere preso completamente dalla macchina ma non pretendo nemmeno di estraniarmene del tutto. Però intendo conservare la mia autonomia, la mia personalità per quanto è possibile. Una delle cose che ti spersonalizzano al massimo sono le serate” dirà in un’intervista ed è subito tutto chiaro.

Ma si parlava di Amore e non amore…
Pubblicato il 26 luglio del 1971, l’album presenta quattro tracce in ambedue i lati, quindi otto in tutto, di cui soltanto quattro contengono un testo, mentre le rimanenti restano delle composizioni, modelli di canzoni strumentali dai titoli lunghissimi e dalle sfumature certamente classicheggianti, ma intrise delle influenze che subentrano nella mistura avanguardista di quel momento, con un Battisti direttore d’orchestra, arrangiatore e polistrumentista eccellente.
Non si dissociano da ciò neanche i brani con testo, in cui Mogol espone un fil rouge, un discorso lineare che abbraccia la tematica stilisticamente esposta nella sua essenzialità in termini moderni, che funge da portale per un ingresso alla filosofia dei discorsi di un mondo occidentale, consumistico e violentemente evoluto.

L’inconsueta unanimità, inoltre, nel descrivere una figura femminile che, probabilmente per la prima volta nella storia della musica italiana, prende il sopravvento sull’aspetto minoritario del soggetto maschile in questione: un uomo affascinato ma che soccombe alla volontà di una donna simbolo delle conquiste delle lotte per la parità dei sessi, sia nei diritti che nelle mansioni e nelle relative retribuzioni (forse oggi non ancora del tutto raggiunte), che addirittura prende iniziativa nell’andare a letto a far l’amore, dopo aver spazzolato in un botto la cena che le era stata preparata con premura (Dio mio no).
Concetto che si ripeterà nel brano Elena no (successivo a questo album), dove l’uomo veste i panni del “casalingo” servizievole e si preoccupa di essersi dimenticato del vino dopo aver fatto la spesa, conoscendo le esigenze della sua “lei”, garantendo che qualsiasi cosa stia facendo sarà per conquistare la fiducia di sua moglie, vera padrona di casa. Ridicolo? All’epoca forse sì, ma oggi spesso si lavora in due, e tocca anche ai maschietti la giornataccia.
La musica: l’amore e il non amore, appunto, il sesso nelle stemperate passioni così volutamente colorate dalla voce graffiante di Lucio, che azzanna il microfono ora con un ruggito, ora con un urlo di piacere materiale che fa gridare allo scandalo, e che fa portare un brano come Dio mio no tra le canzoni più censurate dell’epoca.

L’abbandono poi, degli stereotipi volutamente studiati da sala d’incisione, e l’incontro con l’essenzialità del live trasportato su vinile, dove Battisti “chiama” gli assoli incitando per nome i musicisti, oppure ordina che il brano volga al termine, esempio di emulazione de Il tempo di morire (antecedente all’album), anticipazione di un modello di canzone ridotta all’osso, come Supermarket: stesso genere, chitarra e voce elettrizzati dalla furiosa constatazione della fuga della propria donna dal luogo di lavoro per eventuali “scappatelle”, maliziosamente teorizzate con un’indigestione di “banane”.
E i musicisti: una versione primordiale della Premiata Forneria Marconi (e si ritorna all’inizio della mia storia), denominati I Quelli, con l’aggiunta di Alberto Radius alla chitarra elettrica, già in Numero Uno col progetto di punta Formula 3, e poi con la band progressive Il Volo.
Sì, perché Amore e non amore potrebbe davvero essere definito un disco d’impostazione progressive, genere che in quell’anno esplode in Italia anche con la PFM o Il Banco del Mutuo Soccorso o Il Rovescio della Medaglia (e tanti altri) che aprono la più bella parentesi della musica rock nostrana, grazie anche all’impostazione grafica delle copertine, alle cui origini possiamo trovare proprio quella dell’album di Battisti, su cui si vede il musicista di Poggio Bustone seduto e adagiato ad un albero, in atteggiamento triste, il tutto in un paesaggio campestre, dove in lontananza spicca, di spalle, una figura femminile completamente nuda.

Ho conosciuto il giornalista, scrittore e conduttore radiofonico sannita Donato Zoppo nel 2005, in seguito all’uscita del mio primo disco con gli Inseedia, lavoro a cui dedicò un articolo e una lunga intervista, pubblicati sul Corriere del Sannio nello stesso anno.
Ha sempre promosso i brani dei miei Ordita Trama nell’interessante radioshow Rock City Nights di Radio Città BN e oggi, sicuro ma insicuro di poter ricambiare dei favori, sarò io a intervistarlo.

Donato, sei riuscito a esporre tutta la filosofia di Battisti scrivendo di un unico album. Perché e quando la scelta è caduta su Amore e non amore?

Quella di Amore e non amore sembra una scelta bizzarra, e anche a me all’inizio di questa avventura sembrava così… poi studiando, intervistando, scrivendo e ricostruendo, ho scoperto non solo tutto il making of di questo disco del 1971, ma più in generale la costituzione del pensiero battistiano, che proprio nell’anno di uscita di questo Lp mette a fuoco alcune sue idee centrali, dall’album come progetto artistico totale al progressivo allontanamento dalla stampa. Intorno ad Amore e non amore maturano alcune scelte stilistiche, artistiche e “ideologiche” che saranno fondamentali per Lucio. Questo mio libro Amore, libertà e censura. Il 1971 di Lucio Battisti (ed. Aereostella) è uscito nel 2011 ma credo sia ancora attuale.

So che sei un appassionato di musica prog. Quanto credi abbia influito questo disco nella concretizzazione di quel genere?

Sono cresciuto con il progressive inglese, ma da sempre ho una visione “laica” che mi porta ad ascoltare tutto senza preconcetti, però il prog indubbiamente mi ha formato. Credo che tra 1970 e ’71 abbia colpito anche Lucio, che non è mai stato un grande amante del prog – ha sempre preferito la matrice rock/blues americana, da Wilson Pickett ai Creedence – ma per Amore e non amore ha sperimentato l’idea di album a “pezzi incrociati”, ovvero brani cantati e strumentali con orchestra, peraltro all’interno di una cornice cara al prog inglese, quella del concept. Anche il lavoro grafico fortemente voluto da Mogol, con la famosa copertina di Silvio Nobili, risente molto di quell’estetica anni ’70.

Il prossimo 9 settembre sono venti anni senza Lucio: secondo il tuo parere di giornalista musicale, cosa credi che oggi ci abbia davvero lasciato in eredità?

Lucio ci ha lasciato principalmente due cose. Un patrimonio musicale senza eguali, considerato significativo anche all’estero: un songbook ricchissimo, composto da canzoni di varia estrazione (c’è un Battisti rock, uno blues, uno soul, uno psichedelico, uno avant-pop-funk-electro, quello di Panella per intenderci), con alcuni titoli entrati profondamente nel linguaggio quotidiano e nel mondo sentimentale degli italiani. Ci ha lasciato poi un grande esempio: ha saputo – anche con rigidità e inflessibilità – tutelare la propria integrità artistica, evitando di svendersi, di banalizzarsi, di “normalizzarsi”. Anche nelle canzoni più innocue, Battisti ha mantenuto la sua proverbiale e “selvatica” diversità. Questo lo rende ancora oggi inimitabile.

Conosciamo diversi casi in cui un artista scompare dalle scene ma continua la sua produzione, seppur agendo nella più completa privacy. Quali, secondo te, sono stati i motivi che hanno scatenato questa reazione in Battisti?

Consiglio sempre la lettura di un libro fondamentale, Battisti Talk (Coniglio) di Francesco Mirenzi, che raccoglie tutte le interviste rilasciate da Lucio. Se leggi quelle degli anni ’60 e alcune dei primi anni ’70, noti la superficialità del giornalista medio, che gli chiede dei capelli, del foulard, della fidanzata, ma non della musica. Ricordo uno sketch di Alighiero Noschese e Massimo Ranieri, con il primo che imitava Battisti con chioma gigante, Lucio non la prese benissimo perché diceva «Ma con tutte le rivoluzioni che sto creando nella musica italiana, questi parlano ancora dei capelli?»… quella superficialità non gli piaceva affatto, e non fu casuale che la sua intervista più importante, quella di Anima latina, fu rilasciata a un giornalista musicale di notevole competenza come Renato Marengo, che era anche un produttore. A questo aggiungi che per indole, Lucio non è che avesse chissà quanta voglia di parlare di sé e della sua musica. Gli bastava suonarla e inciderla, il resto spettava all’ascoltatore. Anche la scelta di non fare concerti era dovuta al suo temperamento sedentario – però era un uomo di una curiosità intellettuale vivissima! – e all’idea che il suo percorso musicale dovesse chiudersi col disco, concentrarsi proprio nella materializzazione su vinile, senza altre aggiunte.

Nonostante la sua musica (assieme ai testi di Mogol) abbia imposto un’atipica evoluzione nella canzonetta italiana, il pubblico di allora, comunemente più bigotto, ha comunque apprezzato il cambio di rotta. Qual era il suo segreto?

Battisti e Mogol hanno avuto un fiuto pazzesco, straordinario. Sapevano quando era il momento giusto per dare al pubblico una canzone sul tradimento, un’altra su una figura femminile disinvolta e intraprendente, un’altra dal clima erotico e così via. Da una parte il fiuto, dall’altra il nobilissimo mestiere di artigiani della canzone, tecnicamente perfetta, imbattibile e inevitabilmente al primo posto in classifica. Gli italiani erano pronti, erano stanchi dei Claudio Villa, dei Gianni Morandi, dei replicanti tipo Ranieri o Baglioni. Battisti era diverso, apparentemente alla pari con l’ascoltatore ma lontanissimo, aggiornato e nuovo, rassicurante sia nelle scelte melodiche che nella parte testuale, fatta di un linguaggio quotidiano, preso dalla vita, dalle esperienze sentimentali di Mogol.

Le regole della censura di allora erano palesemente più restrittive, rispetto ad oggi. Infatti bocciarono un brano come Dio mio no. Credi che nella musica di adesso si dia fin troppo spazio a oscenità facilmente esposte?

Beh credo che oggi si sia superato il senso dell’osceno… o comunque trovo più osceno un Povia sciocco comiziante che una canzone dove si scopi apertamente. Peraltro si scopava anche in Dio mio no, il clima era erotico, torrido, una sorta di Whole Lotta Love all’italiana con tanto di urla orgasmiche di Lucio, lui tutto in tiro che aspetta lei a cena, lei arriva, mangia tutto, si chiude in camera da letto e butta via la chiave, lui maschio italiano ancora fesso e mammone che resta stupefatto dalle fregole sessuali di lei. Un po’ troppo per la Rai dell’epoca, Rai democristiana della rigorosa dirigenza Bernabei, che non poteva far passare come trasmissibile una canzone così hot. Oggi percepisco uno stesso moralismo, che però reputo più pericoloso: almeno quello del 1971 era funzionale a un progetto educativo e pedagogico della tv di stato, quello di oggi è figlio del politically correct, dunque ipocrisia allo stato puro.

Negli anni Settanta, oltre ad Amore e non amore, l’album di Lucio per eccellenza più evolutivo fu Anima Latina. Hai mai pensato di scriverci qualcosa a riguardo?

Esiste uno splendido libro su Anima latina, firmato dall’ottimo Renzo Stefanel, che ha compiuto un lavoro di studio, interviste e analisi notevolmente più approfondite e dotte del mio Amore e non amore. Sarebbe impossibile fare meglio! Lui tra l’altro è uno dei migliori scrittori di cose musicali in Italia. Però certo, entrare nelle dinamiche misteriose e fluttuanti del disco del 1974 sarebbe bellissimo, è un album oracolare che ascolto sempre, è fonte di continue rivelazioni. Nessun artista in cima ai consensi dei pubblico sarebbe in grado di demolire il suo monumento come fece Lucio con Anima latina, un Lp dalle svariate direzioni, psichedelico e terzomondista, prog e tropicalista, jazz-rock e canzonettaro ma con tutta quell’effettistica visionaria davvero anomala. E il testo della canzone Anima latina credo sia proprio la vetta del Rapetti.

Cominci questo saggio esponendoci dapprima l’impressione che ebbe su di te un disco come L’Apparenza, che vede la collaborazione col poeta e paroliere Pasquale Panella. Perché Battisti cambiò totalmente rotta dopo l’allontanamento da Mogol? E perché il suo pubblico non lo capì più?

Io sono un estimatore di Panella e dei dischi bianchi realizzati con Lucio, in particolare L’apparenza e Cosa succederà alla ragazza, che sto riscoprendo e amando nel suo iper-funk martellante (prendi la genialata di Tutte le pompe, quella dei “Marameo marameo fanno i cupidi, i frecciatori dal culetto nudo”). Con Mogol si era esaurita una fase artistica, Lucio guardava avanti e con E già (1982) ebbe modo di compiere il primo grande cambiamento, e quattro anni dopo arrivò Don Giovanni. Panella era un terrorista verbale, una perenne gamba tesa nel tessuto rassicurante e piacione della canzone democristiana, era l’autore perfetto per la grande sfida artistica che Lucio voleva lanciare, ovvero la progressiva demolizione della canzone leggera in favore di altre mete, aprendo un dialogo con l’ascoltatore. È per questo che il grande pubblico non capì: gli si chiedeva troppo, gli si chiedeva di seguire e interrogarsi, di riascoltare e riascoltare e non chiedere lo stesso Lucio ma di assecondare il nuovo Lucio. Troppo per un pubblico pop.

Potremmo sapere a cosa o a chi dedicherai il prossimo libro?

Si torna sempre a Lucio, soprattutto in vista del ventennale della sua morte. Il 9 settembre 2018 saprete…

Amore, libertà e censura - Il 1971 di Lucio Battisti Book Cover Amore, libertà e censura - Il 1971 di Lucio Battisti
Donato Zoppo
Musica
Aereostella
2011