Sono nata il primo maggio del 1975 in un paese della Basilicata, poi sono cresciuta a Roma nel quartiere di San Lorenzo, ora mi ritrovo nel posto di origine. Scrivo e basta. Come i miei lettori sanno, chi è curioso mi cerca.

Ho conosciuto la poesia di Mimì Burzo attraverso Nicola Vacca che, su suo Zona di disagio, le ha dedicato uno spazio. Lì, in quel frammento di autenticità, che a volte il web riesce ad essere, abbiamo avuto modo, io e altri, di farci scaldare e ferire dalle poesie della raccolta Malbasento. In quella pagina, che Nicola ha intitolato
Malbasento: la voce della poesia vigile, (cliccate sul titolo per leggere la pagina) potevamo trovare la forza di versi che sembravano fatti di carne. La stessa cosa succede con i versi che riportiamo qui, brani della seria Rupert e Ninna Nanna. Corpo, ferite, terra, luce, brandelli. Una poesia sincopata, che non cerca ordine. Ma esplode. Ecco, quella di Mimì Burzo è una poesia che esplode. E, come tutte le esplosioni, non conosce falsi pudori. Il poeta non ha paura delle parole che usa, e così non ne ha Mimì
Geraldine Meyer

“Le note bio mi imbarazzano da sempre – forniscono informazioni che non mi rappresentano. Scrivo, leggo e cerco di morire rigogliosamente. Mi tengo volutamente in disparte. Pubblico quando vengo invitata, poi ho scritto una piccola raccolta e l’ho proposta a qualcuno con gli occhi. Ogni decisione e gesto riguarda la decisione poetica – l’invisibilità, la non identità, la scelta libera da parte del lettore: ama chi sceglie così come cura e riguarda. La curiosità è la matrice del mondo – chi vuole può cercarmi e trovarmi nell’unico posto in cui sono – la poesia o qualsiasi cosa sia. https://mimiburzo.wordpress.com/

Rupert
Siamo lembi di un oceano minuzioso e sconfinato. I margini interdetti dalle voci.
Anime di reazioni chimiche.
Ditali.
Matite.
Cardo.
Foglia.
Corolla.
Noi siamo i lembi delle nostre ferite. Crosta di fuoco sul liminare di una stella fiorita.
In fondo ad ogni notte
Il governo della bellezza
Arma irredentista
Cannella nelle calze sfilate.

2. La neve spinge i passeri
fin sulla soglia delle terrazze.
Un gesto raro che arriva con il gelo
allungare una mano verso un uccello
fino quasi a toccarlo Pane biscottato al triplo malto
– cardellino occidentale (!)
La guerra creduta alle porte
e’ già entrata
chi conosce il gelo potrà affilare la lama

Il fiore del melograno prematuro
paga con la fragilità il ramo
le temperature di colpo troppo basse e gli acquazzoni l’hanno fatto ibrido in una forma assente
appesa senza crescere o regredire Pennellate con raspe d’acciaio i fascismi tornano
Compostare nei vasi porta un sapore di sottobosco colorato fin nella pelle, tinta
la via della fuga è contorta in questo strano maggio rivestito d’arietta settembrina
Un gioco proibito strizzare il sentire finché non entri nella cruna di un ago punta di antimateria e
anti pensiero antistante ridurre tutto nello spessore di un’altra galassia dove naturalmente la natura
apprende ricorda e non abbandona
È stupida la parola fascismi
non uso mai gli ismi
non so perché usi una parola stupida,
le parole tutte mi parlano in testa la perla nera di Joyce nascosta ancora sotto la zucca e tutto fila
i pensieri, un istante
poi si staccano pezzo di carne immobile nell’attività cerebrale
mai avrei pensato una nuova eco sulle ginocchia
briciola che non sia un niente
La gente piange
io apro stanze
divaricazioni staccate
appese in un silenzio che non so
che ha come unico luogo la carezza di calore
della tenda che sbatte sulla ringhiera
C’è così tanto in questi unici superstiti
tanto tutto da esserci niente
tanto niente che forse questa poesia l’ho già scritta ma non me lo ricordo
per il cinquantapercento non è un doppio
per il cinquantapercento è una copia
Ho fatto tante cose di recente
come trovare il punto d’innesco dell’allucinazione
Il melograno è nano
il vaso è nano
il balcone è grande
la luce è tanta
lui cresce, poi si ferma, poi si paralizza, poi ritenta, poi un nuovo fiore, poi una nuova sconfitta

NinnaNanna
L’estate avanza verso settembre.
La speranza è quella di cadere in una goccia d’acqua.
In un acquazzone liberatorio dopo mesi di arsura,
nel fossato di una terra arsa e riarsa, fino a non respirare
e infinite contingenze ed evenienze nel quale il tutto sopraggiunge in una sommatoria di istanze
umane che si disciolgono nella morte invisibile e muta della terra.
Sempre e ancora resistente, prestigiosa e austera, con i suoi intervalli fra vita e morte, e le ginestre
e i fichi d’india e la pineta. –
L’olivo bussa al cielo con le sue potature precise e malinconiche.

Il ciccione vestito sempre allo stesso modo e con gli stessi colori affonda laido sui suoi sandali esili.
Quattro frecce accese. La mossa ferma del braccio nel pigiare un piccolo bottone. Una certa presa.
Una certa sicumera. Probabilmente una rara consapevolezza nel sedile della macchina che si
abbassa sotto il peso dell’obeso e il suo quintale di ignorantità.
Capita si, di pensare alla merda
Dodici denari camminano di sotto al balcone.
Universalità. Genotipo e fenotipo.
Genetica e forma attuale. Codice e programma,
su quei sandali troppo esili. Dilatati quasi, per il peso così grosso.
Stare lì sul balcone pensare che forse era un buon momento per pensare,
una sorta di perversa perseverazione, guardare e chiedere.
Un attimo prima del silenzio le piante crescono davanti alle soglie di marmo abbandonate sotto il
guano dei piccioni.
Ricordare allora in toni opachi senza immagini o colori
solo forme fisiche congetturate in impressioni e le voci che parlano di cose minute,
di carnosità che non ha bisogno del tatto per esser palpate.
Davanti al camino,
un bicchiere di vino,
rabbia di carta vetrata, acredine, fiore di lana d’acciaio.
Al cospetto del fuoco, le bocche sottili, coperte, gatti, tabacco e la fuliggine che cerca di
raggiungere un cielo troppo carico di stelle.
E la cacca. L’ago nel pagliaglio. Le perversioni di un chiodo. Lo stridore dei pensieri che
sferruzzano contro i nervi. I nervi. Il nervo scoperto. Il nervo di ferro.
La forma semplice di un male contorto. Merda.
Il disastro dell’aggettivo sull’anima.
I fiori devon esser guardati per non morire.
Guardare. Osservare. Perdurare.
Merda. Merdra, per infastidire i francesi. A Jarry non dispiacerebbe il plagio.
Il rigoglio è la speranza unica della pianta.
L’obeso, patalone sempre uguale sempre blu con la polo sempre uguale sempre blu con colletto a
piccole righe bianche, ripassa sotto al balcone, ha spostato di pochi metri la macchina.
Problemi di parcheggio. Strategie di vita. Traqnuillità del benpensante. Sonno fra quattro guanciali
Spostare di pochi metri la macchina.
Il grassone passa oltre il balcone e si accinge a citofonare – Si prega le bambine di non giocare, o
almeno farlo in silenzio. Bisogna che si riposi. Domani sarà una giornata gravosa.
Arrivano i preti neri ospiti dei religosi che mi faranno lavorare.
Le bambine albanesi non devono disturbare. Le farfalle non devono volare.
Il sole non deve bruciare. Il petrolio non deve inquinare. Le multinazionali non devono depredare.
Le meduse non devono nuotare.
Idea. Attributo. Categoria. Controllo.
Capitalizzazione umana del fenotipo – pressione verso la morte del genotipo.
Le bambine musulmane non possono giocare.
La notte è dedicata alle preghiere in chiesa. Il freddo. L’età. Gli acciacchi. Si sa!
Tanto si sta seduti. Il Don lo apprezza molto. La fede è sacrificio. Bisogna riposare.
Palchi e sofà di aggettivi e di vocali.
Aggettivare. Rivestire. Apparire.
Adesione ad una forma. Politica del vivere. Vivere politico sotto la sferza del valore reale
dell’oggetto che concretizza un concetto.
Con gli occhi fermi sul moto immobile, sulla vita immobile dei soprammobili sul mobilio fisso,
nella casa fissa, dove tutto è fermo e la vita passa sotto le soglie della percezione. Nella fissità del
tempo. Nell’immutabilità delle cose. Nel lasciare oggetti, sopramobili, mobilio, abitudini, pensieri,
azioni immobili in uno stato di eterno presente, lasciando tutto nel giardino epigenetico di isteria e sopravvivenza.
I bambini non devono giocare. I malati non devono piangere. Il sole non deve bruciare.
Idea. Solidità. Forma.
Morte della non forma e della libertà
Mimì Burzo