Giuseppe Di Matteo è giornalista a Telenorba e collabora con la Gazzetta del Mezzogiorno. Il suo percorso di studi lo ha portato a frequentare l'Università La Sapienza di Roma dove si è laureato in storia. Ha studiato anche presso la Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia. Nel suo curriculum anche un'esperienza londinese presso Birkbeck Univerity London. Collabora con il blog letterario di Nicola Vacca Zonadidisagio.wordpress.com

La vita è un pallone rotondo è il titolo di un bellissimo libro di Vladmir Dimitrijević. «Il calcio – annota lo scrittore serbo – è il re dei giochi perché, come la danza, riporta il nostro corpo a quel che si potrebbe definire la preistoria dei nostri movimenti». La palla è rotonda è invece un famoso detto popolare che di questo sport è diventato il motto più rappresentativo. Il calcio infatti contempla una buona dose di imprevedibilità: non sempre vince il più forte, di scontato non c’è (quasi) nulla. E tutto improvvisamente può cambiare.
A volte è una questione di centimetri. Durante la sfida del ’74 tra Italia e Argentina, se la palla calciata «con precisione chirurgica» da Sandro Mazzola fosse entrata, probabilmente la storia di quella Nazionale e di quel Mondiale, organizzato in Germania Ovest e vinto dai tedeschi, sarebbe stata diversa. E invece no. Il pallone uscì di un niente. «Forse un ciuffo d’erba, o una zolla sistemata male. Non lo sapremo mai». In altri casi ci si mette il destino a scombinare i piani. Accadde, per esempio, durante il campionato del Mondo del ‘58 disputato in Svezia. L’estroso Garrincha, funambolo brasiliano di classe sopraffina (segni particolari: una gamba più corta dell’altra e un bacino ballerino) avrebbe dovuto sfidare il campione sovietico Eduard Strel’cov, giovane promessa della Torpedo Mosca. Ma quel duello tra fuoriclasse, in programma il 15 giugno a Göteborg, non avrebbe mai avuto luogo. A pochi giorni dall’inizio delle ostilità, Strel’cov, che non era visto di buon occhio dal partito comunista, venne infatti accusato di stupro, con conseguente squalifica a vita. E anziché per la Svezia partì per la Siberia: destinazione gulag. Per la cronaca, quel Mondiale l’avrebbe vinto il Brasile spazzando via i pur temibili padroni di casa con un umiliante 5-2 impreziosito da due autentiche gemme di un giovanissimo talento di 17 anni destinato all’Olimpo degli dèi. Il suo nome era Edson Arantes do Nascimento, meglio noto come Pelé.
Garrincha e Strel’cov: due campioni uniti dall’amore per il calcio, ma divisi dalle circostanze. La loro vicenda è solo una delle tante tessere che Stefano Bizzotto – giornalista sportivo e telecronista Rai – ha deciso di utilizzare per allestire la sua succosa biografia dei campionati del Mondo. Ma attenzione: Giro del Mondo in una coppa – Partite dimenticate, momenti indimenticabili dell’avventura mondiale (edito da il Saggiatore) non è la solita rassegna di eroi che si limita a scrivere la storia dal punto di vista dei vincitori. Sotto la patina degli almanacchi e dei trionfi da copertina esiste infatti un immenso sottobosco di «appuntamenti mancati con il destino», piccole grandi tragedie, incredibili intuizioni nate nei momenti più impensabili.
È un semaforo londinese a suggerire all’arbitro britannico Ken Aston l’idea di utilizzare alcuni cartellini colorati per sanzionare i comportamenti più gravi in campo. Correva l’anno 1966 (per intenderci, quello che noi italiani ricordiamo per la sentenza amarissima infertaci dal coreano Pak Doo-Ik). «Giallo, fai attenzione. Rosso, sei fuori», scrive Bizzotto esibendo lo stesso stile asciutto che caratterizza le sue telecronache: mai una parola fuori posto, bando agli inutili fronzoli delle penne d’oca. Il racconto scorre che è un piacere, e il merito principale dell’autore sta nell’averlo strutturato in modo efficace privilegiando il piacere della narrativa ai dettami della cronaca: ogni edizione della coppa del Mondo (ventuno, se si considera quella russa ancora in corso, la cui storia è però tutta da scrivere) ruota intorno a un aneddoto specifico e a una manciata di episodi che, assemblati con la giusta dose di maestria, regalano al lettore l’emozione di un film ben riuscito che parte dal lontanissimo 1930 in Uruguay – il primo Paese ad aver ospitato (e vinto) la competizione – e si ferma in Brasile, dove, nel 2014, trionfarono i tedeschi, anche se non mancano alcune riflessioni sul Mondiale di Russia che, come noto, non ha visto la partecipazione della nostra Nazionale.
Dai tempi dell’Uruguay schiacciasassi ne è passata di acqua sotto i ponti (oggi sarebbe impensabile per un giocatore raccontare le proprie gesta su un giornale, come avevano fatto negli anni Trenta i calciatori francesi Pinel e Chantrel, corrispondenti del quotidiano L’Auto, e Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale bicampione del Mondo e firma prestigiosa de La Stampa), ma in fondo il calcio è rimasto sempre lo stesso a dispetto delle diverse epoche susseguitesi. Bizzotto, da par suo, le attraversa con la delicatezza e la precisione maniacale del cronista, accompagnandoci per mano all’interno degli stadi e dei pensieri più reconditi dei protagonisti che li hanno “abitati”. Accanto all’urlo di Tardelli e alle magie di Maradona e Pelé risuonano i gesti silenziosi di chi scelse di non barattare la gloria del rettangolo verde con l’orrore: il calciatore argentino Jorge Carrascosa si rifiutò infatti di giocare in Nazionale per protesta contro il regime spietato di Videla (nel 1978 il Paese sudamericano avrebbe ospitato e vinto la coppa del Mondo). Una goccia assordante nel mare che dimostra quanto pallone e vita reale siano tutt’altro che rette parallele destinate a non incontrarsi mai.
Giuseppe Di Matteo

Il giro del mondo in una Coppa. Partite dimenticate, momenti indimenticabili nell'avventura mondiale Book Cover Il giro del mondo in una Coppa. Partite dimenticate, momenti indimenticabili nell'avventura mondiale
Stefano Bizzotto
Storie di sport
Il Saggiatore
2018
330, ill