Emanuela Iaconella nasce a Roma ma, da diversi anni, vive nella provincia di Viterbo. E' stata per tantissimi anni un'insegnante in realtà difficili a Roma. Da sempre ama scrivere. Lo scorso anno, con una sua storica amica, ha pubblicato, con uno pseudonimo, il libro Racconti a quattro mani, Sette Città Edizioni. Continua a scrivere nel tempo che le lascia libero il suo essere mamma e nonna. Collabora con la figlia nell'attività di arte terapia che quest'ultima ha creato a Tuscania

Zia Rina
Zia Rina, mammazia perché, dove non poteva arrivare mamma, c’era sempre lei. Dolce mia zia. Minuta e silenziosa, sovrastata dalle altre figure di casa, tanti personaggi dall’aspetto importante e di caratteri dominanti. Lei sempre in punta di piedi, disponibile e discreta, sposò il fratello di mia madre grazie ad una dispensa vescovile, perché di fatto suo marito era anche suo cugino. Si sposarono nell’ottobre del 1945 quando la guerra era alle sue battute finali, lasciandosi dietro morte e devastazione, ma soprattutto ferite negli animi, difficili da sanare. Ma, al tempo stesso voglia di dimenticare e ricominciare. Mia zia ricominciò da lì, lasciando il suo paese e la sua famiglia e, sopra un vecchio camion, viaggiò un intero giorno per raggiungere Roma. Quello fu il suo viaggio di nozze.
In un periodo così buio non c’era possibilità di fare un vero abito da sposa e l’unica foto che ricordo che le fu fatta la ritraeva con un normale vestitino, un grazioso capellino e un fascio di fiori in mano. Non c’era neppure la possibilità di reperire confetti e bomboniere. Ovviamente questo le procurò un po’ di malinconia e quando ne parlava diceva sempre: “Mi rifarò con le nozze d’argento.” Difatti io l’aiutai a preparare questo evento come fosse un matrimonio in grande stile, anzi di più. Rina era nata e cresciuta in un paese delle Marche non lontano da Recanati. Il padre era l’orologiaio del paese. Lei aveva studiato fino al liceo che, per quei tempi, era un titolo di studio elevato, soprattutto perché donna.
Nonostante la sua indole silenziosa era sempre ben disposta a narrare a noi ragazzi storie affascinanti che riguardavano soprattutto la sua vita al paese. Raccontava, ad esempio, di avere avuto delle maestre molto buone perché, prima dell’arrivo dei bambini, scaldavano l’aula e un po’ di latte con dei piccoli bracieri. Di scuole ce n’erano poche e le classi non erano suddivise per età ma si accoglievano tutti i bambini insieme cercando di portare avanti un programma che andava dalla prima alla quinta elementare. Dai vari paesi circostanti la scuola si avviavano i bambini incontrandosi l’un l’altro sullo stesso tragitto, con i piedi affondati nella neve e stretti per il freddo nei loro giacchettini. Perché solo in pochi possedevano un cappotto.
Ci raccontava anche che quella zona dell’entroterra marchigiano era coperta di neve per quasi tutto il periodo invernale. Arrivati a scuola, i bambini intirizziti, si toglievano calze e scarpe completamente fradice e si scaldavano intorno al braciere sorseggiando del buon latte, mentre la maestra, come in un dolce rito quotidiano, raccontava una favola. Questa storia aveva, per me, un fascino misterioso perché io raggiungevo la scuola facilmente e le poche nevicate vissute a Roma erano soltanto una festa grandiosa.
Quei racconti però accendevano in me la fantasia e immaginavo cose avventurose, desiderando tanto di trovarmi nella classe con il braciere dopo una camminata nella neve. Ma quando poi l’estate andavo in vacanza quei luoghi non erano più così. Mia zia raccontava anche che la loro vita era vissuta in stretto rapporto con le scosse di terremoto, a volte forti, altre più leggere. Usavano questo sistema per essere sempre vigili: tenevano un bicchiere sopra la mensola e lo tenevano capovolto con sopra, in bilico, un cucchiaino, che sarebbe caduto al minimo movimento allertando anche chi non aveva percepito la scossa.
Rina in seno alla famiglia romana era la prima ad alzarsi, apriva il grande portone di casa e andava a comperare il pane per tutti quelli che si recavano a scuola e al lavoro. Andava poi in cantina e accendeva la caldaia dei termosifoni e, d’estate invece annaffiava e rinfrescava cortile e giardino. Dal momento che era sempre pronta accompagnava noi bambini a scuola. Ma come era la prima ad alzarsi al mattino era sempre l’ultima ad andare a letto la sera. Il chiarore della sua macchina da cucire mi dava un senso di serenità prima di addormentarmi. In quelle sere, da sola e nel silenzio di casa, se non cuciva scriveva lunghe lettere alla sua famiglia che, credo, le doveva mancare molto. Come molto doveva mancare lei ai genitori e ai suoi fratelli. Infatti per questo, da noi a Roma, era sempre un gran via vai di parenti che per qualche giorno venivano ad aumentare la nostra già grande comunità. Gli ospiti però non erano un problema, non c’erano formalità e se proprio i posti erano esauriti si aggiungeva un letto in uno dei corridoi e noi bambini, allegramente, cambiavamo posto. Quelle grandi valige di cartone marrone con le quali arrivavano i parenti erano, per noi, l’isola del tesoro. Da lì uscivano il ciauscolo, le torte al formaggio e sacchetti di ciambelle all’anice. Tante ciambelle. Quando chiedevo alla mamma di zia Rina quando sarebbe tornata, lei sorridendo rispondeva: “Quando saranno finite le ciambelle cocca.”

La foto di copertina è presa da wikipedia.org

I precedenti racconti li trovate sempre su Lottavo