Sono nato a Orvieto il 21 agosto 1985. Laureato in filologia moderna all'università della Tuscia. Sono giornalista pubblicista. Le mie passioni sono musica, letteratura e cinema. Amo le contaminazioni e la ricerca di nuovi stili da adattare a questa assurda modernità. Ho scritto anche un libro: Inverni. La città che muore, Sette Città editore

Lottavo.it comincia uno spazio dedicato alla cultura del e nel territorio del viterbese. Peché, se è vero che una rivista on line non ha limiti geografici, è altrettanto vero che ha, pur sempre, un luogo di nascita. E, per Lottavo.it, questo luogo è Viterbo. E questo dato anagrafico, relativo per molti, non lo è per noi. E ci sembra importante. Cominciamo dunque con questo articolo dedicato ad un incontro che, lo scorso 23 febbraio, presso il Magna Civita di Bagnoregio, è stato dedicato proprio a Wilcock, nell’ambito della rassegna culturale Il Giardino Letterario. In quella serata, lo scrittore Giorgio Nisini ha raccontato questo grande della letteratura mondiale, Wilcock appunto, che proprio nella Valle dei calanchi, a Lubriano, visse per lungo tempo, fino alla morte avvenuta nel 1978.
Come parlare di Juan Rodolfo Wilcock? Un problema. Giorgio Nisini ci ha provato attraverso le opere in un percorso di continue contraddizioni. A cominciare dalla vita. Prima vera opera d’arte di un ingegnere argentino che diventa poeta. Si trasferisce in Italia, quasi in esilio. Si incontra e scontra con l’ambiente romano. Cerca rifugio prima nella provincia, a Velletri, poi nella natura, a Lubriano. L’esilio nell’esilio. Uomo di scienza e di lettere. Sudamericano e europeo. Solitario e iconoclasta. Il suo nome, Juan Rodolfo Wilcock, così bello e articolato in diverse pronunce, lo descrive benissimo. Figlio di padre inglese e madre italo argentina, la sua vita è una ricerca continua di cambiamento. Un rapporto intermittente con la logica e uno studio costante dell’umanità. Studio che porta avanti da più punti di vista fino ad arrivare a quello esterno. Al distacco. Dove affiora la dis-umanità. La vera natura irrazionale dell’uomo descritta da un uomo con rigida razionalità. La sua opera è tutto e il contrario di tutto. Il punto di vista di JRW era un casale con ampio giardino a ridosso di uno strapiombo sulla valle dei Calanchi. Il suo era un punto di vista privilegiato da dove poteva osservare Civita di Bagnoregio nella parte opposta al ponte. Da dove, appunto, non arrivava l’uomo. Se ne è parlato a “Il giardino letterario”. Un evento (lo scorso venerdì 23 febbraio) all’interno di un intenso calendario organizzato dal locale Magna Civita di Bagnoregio dove si parla di libri, cultura e si beve dell’ottima birra artigianale. Il 16 marzo di questo anno ricorre il quarantesimo anno della morte di Wilcock. Dall’inizio dell’anno sono usciti articoli (anche qui, su www.lottavo.it), si è parlato di JRW a radio3 e sono stati organizzati diversi eventi. Il comune di Lubriano, paese in cui l’importante autore passò gli ultimi anni di vita, si sta impegnando nell’organizzazione di eventi volti a rendere onore a quello che tutti, in paese, conoscevano come “lo scrittore”.
Nisini, che in passato ha collaborato con Livio Bacchi Wilcock, figlio adottivo di Juan Rodolfo e importante traduttore, oltre a parlare delle opere ha raccontato diversi aneddoti riguardante il paese teverino. Wilcock frequentava una famiglia di contadini e in estate amava spingersi a largo del lago di Bolsena a bordo di un canotto. Odiava le convenzioni. Amava la torta Sacher, le pennichelle pomeridiane e la natura che lo circondava. Risulta impossibile raccontarlo in modo accademico. Come ha sottolineato Giorgio Nisini: l’unico modo per parlare di JRW è raccontarlo come lo farebbe JRW. Libri, raccolte, romanzi, testi teatrali, saggi, racconti, frammenti di vita e frammenti di opere. Come quelle che compongono “Lo stereoscopio dei solitari”, “Fatti inquietanti” e “La sinagoga degli iconoclasti”. Una rassegna di storie raccontate in modo talmente realistico da far passare per veri anche elementi surreali. Si tratta di brevi storie raccontate da una penna raffinata e irriverente.
Frammenti di verità e fantasia. I dettagli realistici, che possono essere tecnici, storici, politici, geografici… sono frutto del continuo studio di quello che Nisini ha definito “L’ingegnere che non crede più nella scienza”. Difficile capire in cosa credesse J.R. Wilcock. Difficile immaginarlo all’interno di un recinto artistico comunemente condiviso. Un dato di fatto è che la sua letteratura aveva messo i piedi nella modernità. Lontanissimo dal parlarsi addosso. Un faro che illumina in modo intermittente tutto quello che c’è intorno. Che porta il lettore ad accendere il cervello. Le sue descrizioni, piene zeppe di verità, parlano di cose e personaggi inesistenti. La creazione di un dubbio perenne. Intanto il giardino letterario del Magna Civita viene scosso da un potente e freddo temporale che scrolla la grossa tenda. Il tè caldo e il vino rosso accompagnano degnamente il fiume di parole che riprendono dopo la lettura di tre poesie scelte tra cui “Uno strato di creta biancastra” ispirato dalla valle dei Calanchi. “Oggi la comunicazione è fatta di frammenti. Wilcock lo aveva capito negli anni ‘60” ha concluso Nisini.
La sensazione che si ha leggendolo è la stessa descritta da Pasolini nel suo commento a “La sinagoga degli iconoclasti”. Ovvero quello di una lettura spassosa e talmente divertente da far ridere fino alle lacrime. Sensazione che dura fino alla chiusura del libro dove, improvvisamente, arriva l’inquietudine. Anche Pasolini rientra nella cerchia degli amici italiani di Wilcock. Tra i tanti anche Dacia Maraini e Elio Pecora. Quest’ultimo ha potuto documentare anche il giorno della rocambolesca morte. L’agenzia funebre non aveva il carro disponibile ed ha prelevato il cadavere con un camion. Il corpo non passava dalla porta ed è stato legato al materasso con cinte e corde rimediate dallo stesso poeta che ha aiutato i dipendenti dell’agenzia funeraria a calarlo giù dalla finestra… tutto questo accadeva in località Ponga, a Lubriano, il 16 marzo del 1978, mentre a Roma, in via Fani, veniva rapito Aldo Moro e sterminata la sua scorta. E così se ne è andato mentre tutti guardavano altrove. Così la sua morte, proprio come l’avrebbe raccontata lui stesso.