Fabio Orrico vive e lavora a Rimini dove è nato nel 1974. Ha pubblicato le plaquettes L'angolo (2000) e 20 poesie sullo spaesamento (2002), le raccolte di poesie Strategia di contenimento (Giulio Perrone Editore, 2005) e Della violenza (Fara editore, 2017). Insieme a Germano Tarricone ha scritto il thriller Giostra di sangue (Echos edizioni, 2015) e il noir Estate nera (Golem editore, 2017). Per Eroscultura è uscito nel 2016 il romanzo Il bunker in formato ebook. Scrive di cinema sul blog zonadidisagio.wordpress.com e di letteratura su scrittinediti.wordpress.com.

Formatosi alla corte di David Chase, nella blasonatissima writers’ room de I Soprano, Matthew Weiner è l’uomo che più di tutti si è avvicinato alla composizione di quel Grande Romanzo Americano vagheggiato al pari della Pietra Filosofale da praticamente tutti gli scrittori statunitensi, da Melville in poi. Il suo capo d’opera, neanche a dirlo, è naturalmente Mad Men, serie in sette stagioni o, più precisamente, period drama, visto che la sua azione scenica copre il decennio dei ’60. E lo fa con nitore e pignoleria kubrickiani, non tanto (o non solo) per il virtuosismo della resa scenografica ma soprattutto per il modo in cui la creatura di Weiner è in grado di fondere storie e Storia, senza forzature e ammiccamenti ma mettendo in scena personaggi che sono quasi persone e che, letteralmente, fanno quegli anni, riflettendone modi e forme.
Immagino sia inutile riassumere la trama di Mad Men (ammesso che ci sia, in senso stretto, una trama e non piuttosto una storia) ma è impensabile non focalizzarsi sul suo protagonista, cioè Don Draper, interpretato da Jon Hamm. Primus inter pares in mezzo a uno stuolo di comprimari magnificamente cesellati, Draper colpisce in quanto perfetta incarnazione della metafora sottesa alla serie. Il pubblicitario, l’uomo che inventa slogan per vendere i prodotti del capitalismo arrembante e, insieme, un uomo con un segreto, perché Don Draper non è Don Draper ma Dick Whitman, sottoproletario dell’America profonda, steinbeckiana, che ruba l’identità a un suo commilitone durante la guerra di Corea e da lì ricomincia una nuova vita. La famosa second chance, altro caposaldo ideologico della cultura americana che, però, nella serie di Weiner si ammanta di contenuti cupi, contraddittori. L’identità fittizia di Don infatti lascia vittime illustri sul campo, a cominciare dal fratello minore, come viene raccontato nella prima stagione.
Poi c’è l’esasperato dongiovannismo di Don. La seduttività del pubblicitario è, fatalmente, anche quella dell’uomo. Non è solo un bisogno di donne, è anche un bisogno di relazioni parallele perché Don non mette mai in discussione il suo matrimonio (anzi, i suoi matrimoni) ma anzi lo riafferma con ostinazione nel suo valore di simulacro di una vita perfetta.
Con il suo discorso continuo, di attenzione chirurgica, sulla famiglia Mad Men rappresenta il doppio fondo, l’inferno privato della rappresentazione mainstream del family man statunitense. Un rilievo importantissimo assume nell’economia della serie il personaggio di Sally, figlia di Don, interpretata magistralmente da Kieran Shipka (sì, magistralmente, anche se si tratta di una bambina prima e di un’adolescente poi, perché le serie hanno questo dono misterioso e ipernaturalistico di farci assistere all’invecchiamento dei nostri eroi). Figlia dell’alta borghesia newyorkese, Sally è destinata a far deflagrare le contraddizioni del padre, a scoprirne i fallimenti e ad evidenziarne le manchevolezze. È un personaggio drammaticamente consapevole perché ancora innocente e quindi spaesata in mezzo al caos della sua famiglia e più in generale del suo ambiente sociale.
Opera decisiva sulla memoria pubblica e privata, Mad Men riveste per il cinema americano (anche se tecnicamente si tratterebbe di televisione ma avrei potuto parlare di letteratura e sarebbe stato comunque pertinente) la stessa importanza e peso che Heimat di Edgar Reitz ha per il cinema europeo. Una narrazione epica e ramificata, con personaggi così complessi da permettersi il lusso di essere incoerenti. In questo soprattutto sta la grandezza di Mad Men: nella sua incredibile somiglianza con la vita, resa non con mezzi da cinema-verité ma con un’attenzione inesausta ai suoi protagonisti e alle loro oscillazioni interiori. Tutto questo senza trascurare stile e consapevolezza del mezzo, nonché la riflessione sul mezzo stesso. Ne fa fede Don Draper che, all’alba del 1960, entra in scena come l’eroe di un melò di Douglas Sirk, una figura già superata dai tempi e, nel 1970, si congeda dopo un vagabondaggio languido e senza senso, come tanti di lì a poco ne avrebbe raccontati la New Hollywood.