Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

La letteratura americana, in questo ha assolutamente ragione il critico letterari Gian Paolo Serino, è l’unica rimasta a potersi fregiare della definizione di “letteratura civile”. Che piaccia o meno, in molti dei suoi migliori esponenti ha conservato la capacità di interrogarsi e interrogare, di mettere ferocemente in discussione la società americana e la sua politica. Erede di una tradizione che comprende giganti come London, Steinbeck, Faulkner, per passare da McCarthy e De Lillo arrivando, non ultimo a un colosso come Whitehead, e a molte delle pagine di Eggers, la letteratura Made in USA è la più vitale, la più coinvolta nell’analizzare le contraddizioni e la ferocia di una società che si erge a modello e, purtroppo, spesso ci riesce. Per non dimenticare lo straordinario John Updike di Verso la fine del tempo, romanzo in cui il protagonista riflette su di sè ma anche su un mondo distrutto da una guerra sinoamericana che ha decimato la popolazione e ha irradiato il pianeta di mortali radiazioni
La letteratura distopica è uno dei filoni letterari a cui più spesso sono ricorsi gli scrittori americani per traslare in un futuro lontano un’America sbandata e vittima delle sue stesse storture. Come se una cavalcata in avanti nel tempo potesse, paradossalmente, far sentire ancora più vicina e ancora più forte la critica, l’analisi e, in definitiva, la condanna ad un sistema e ad una cultura che, se ne sia consapevoli o meno, ci ha reso (a noi italiani di sicuro) una sorta di colonia americana. A partire dal Piano Marshall.
Alla distopia dei migliori scrittori appartiene anche questo durissimo American War di Omar El Akkad, egiziano di nascita, vissuto poi per un periodo in Canada e ora di casa nell’Oregon. Non è certo lo stile quello che resta impresso a chi legge questo libro, molto pulito, essenziale, non a caso giornalistico (vista la professione di El Akkad) ma lo scenario, le immagini, i richiami fin troppo evidenti ad un’America a cui, ad un certo punto, si rivolta contro la sua stessa barbarie.
Siamo nel 2074 e in America scoppia una guerra civile. Il mondo è stravolto da disastri climatici, il mare ha cancellato enormi estensioni di terra e una gran parte degli Stati Uniti (che uniti non sono più) sono sommersi. Fiumi prosciugati e una vegetazione rachitica e bruciata fa da sfondo all’imbecillità umana con un nuovo impero che si estende per tutta la Penisola Arabica e un’America in cui il petrolio è fuori legge, droni assassini seminano morte e distruzione e favelas di tende accolgono milioni di sopravvissuti, esuli, disperati.
Scene in cui una guerra fratricida (il sud non accetta la politica del nord e del suo Futuro Sostenibile) ci ricorda molto bene scene di altre baraccopoli, di altre violenze (Guantanamo appare neanche tanto mascherato) di altre distruzioni. Solo che qui è l’America che soccombe a causa degli stessi mezzi adottati dal paese (fino ad ora) contro altri paesi. Qui, invece, l’autore ci conduce in quello che accadrebbe se l’America usasse contro di sé, le stesse armi adottate contro i suoi “nemici esterni”. La storia ci viene mostrata e raccontata attraverso gli occhi di Sarat, prima bambina, poi adolescente e infine donna in questo teatro di massacri, vendette ed epidemie create in laboratorio.
Un sud e un nord che divengono paradigma di altre ben note divisioni, migrazioni forzate che ci raccontano di altri esodi di disperati. Vendette e “guerre tra poveri” che l’America vive “finalmente” sulla propria pelle dopo avere esportato democrazia in tutto il mondo. Un razzismo che si rivolta contro i più grandi razzisti della storia (il peccato originale dell’America è e resta quello) perché, come ci ricorda uno dei personaggi del libro “ il razzismo ha una struttura piramidale e quei disperati non li sopportavo nemmeno io”.
Un racconto crudele di guerra e distruzione, buttato in un futuro neanche lontanissimo eppure terribilmente familiare. Non ci sono navi aliene, non c’è teletrasporto e non ci sono strumenti tecnologici così diversi da quelli di cui già si dispone ora. Tutto è spostato nel tempo ma spaventosamente vicino e riconoscibile. Definirlo libro di fantascienza sarebbe quanto di più riduttivo e banale si possa fare. Basterebbe leggere il rapporto chiamato The Paradox Of Progess, che non è la sceneggiatura di un colossal hollywoodiano, ma quanto sostenuto dal National Intelligence Council USA che prefigura il mondo entro il 2035 (cioè domani) e lo vede, tra le altre cose, in balia di droni assassini e conflitti per acqua e cibo.
American War racconta, con la distopia, qualcosa che più che un futuro, rischia di essere storia, cronaca. Perché il mondo ha un problema e questo problema, forse, è proprio l’America.

American War Book Cover American War
Omar El Akkad
Letteratura distopica
Rizzoli
2017