Diploma maturità classica – Laurea in Giurisprudenza in 3 sessioni e mezza – Pratica legale – Pallavolista di successo – Manager bancario e finanziario – Critico musicale dal 1977 – 6 mesi esperienza radio settore rock inglese ed americano – Studi continuativi di criminologia ed antropologia criminale – Lettore instancabile – Amante della letteratura noir e “gialla “ – Spietato con gli insignificanti. Fabio è venuto a mancare nel maggio del 2017. Ma noi abbiamo in archivio molte sue recensioni inedite che abbiamo deciso di pubblicare perché sono davvero parte della storia della critica musicale italiana

Ed ecco il ritorno del quintetto di Modesto (California), capitanato dal barbuto Jason Lytle, già intestatario di 2-3 dischi del passato da avere di sicuro, a partire dall’esordio del 1997, quindi, sono 20 anni che esiste il loro marchio, anche se le incisioni sono rimaste sospese per parecchio, in virtù della carriera solista del leader, che non è mai definitivamente decollata. Arrivano all’appuntamento col nuovo disco dopo 10 anni. I Grandaddy, grandi amanti della natura e dell’agricoltura, si sono sempre segnalati per dare un suono “umano” ai sintetizzatori ed alle tastierine di vario tipo, da sempre una fissazione di Jason . Senza ombra di essere smentito, posso dire che questa band è quella che assomiglia di più ai leggendari Beach Boys intestatari del disco per il quale Paul Mac Cartney (Beatles) provava invidia, come da lui stesso affermato, e cioè “Pet Sound”. I Grandaddy assomigliano loro per questo “profumo di melodia” che fuoriesce, incontenibile, dalle loro composizioni. D’accordo, è più pop che rock, ma il tiro dell’iniziale “Way we won’t”, singolo di traino, non può lasciare indifferenti. Strutturata in modo assai solido sui synth, è una cavalcata esaltante che attraversa l’America campagnola dagli Anni Sessanta ad oggi. E lo fa mantenendosi miracolosamente in equilibrio tra elettronica e cantabilità. Veramente formidabile e da far ascoltare a tutti coloro che vogliono creare qualcosa di ferocemente commestibile, ma intelligente. Bella, per davvero! “Brush with the wild” conferma che loro sono immutabili, non cambieranno mai, sempre galoppanti con un occhio particolare alla melodia, che qui ricalca abbondantemente quella della song iniziale, ma non con la stessa forza. Solo buona. “Evermore” è più serrata, sempre edificata sul suono del synth, conferma la loro semplicità ed umanità del suono, ma questo non sempre va considerato un limite. A mezza strada fra Devo e Depeche Mode. Ottima. “Oh she deleter” (va ad ondate di elettronica ed è solo strumentale e brevissima). “The boat is in the barn” è il vero ponte tra Beatles e Beach Boys. Melodia ariosa e molto rifinita, ci riporta indietro nel tempo di parecchi anni ed ha un fascino indiscutibile. E’ pop, ma attraente. Grande canzone melodica, chiusa da un pianoforte molto bello, senza la “cattiveria ” del rock. Sono dei gran romantici i Grandaddy! “Chek Injin” è incalzante, fratturata, variegatissima, piena di colori schizzati su una tavolozza ispirata. “I don’t wanna live here anymore” recupera la scansione tipica della band e se la gioca alla grande, con passo fortemente sagomato e convincente. “That’s what you get for gettin’ outta bed” cambia le carte sul tavolo. Sognante e californiana al 100% , crea un tratto melodico assai bello. Una delle cose migliori del disco. “This is the part” si avvale pure degli archi in un contesto quasi melodrammatico. Buona, ma a noi piacciono i Grandaddy più sintetici ed essenziali . Qui sembrano quasi i Mercury Rev. “Jed the 4th” prosegue sulla strada di una “melassa melodica ” che solo loro possono trattare con questo gusto, senza eccessi. Questo brano è tra le cose migliori ed ispirate. Bella. “A lost machine” si apre su rumori elettronici ed un piano evocativo, quasi da “Belle Époque”, poi, evolve con una melodia liquida e corposa, con la voce ispirata del leader, responsabile di tutti i brani (12) del disco. Una nebbiolina tenue avvolge tutto il brano, capace di far riflettere a lungo. Piccolo gioiello incontaminato e puro. Eccellenza assoluta. “Songbird son” riscopre la chitarra acustica ed è poesia autentica.
Molto tenue e distesa, conferma la vena ispirata del disco, a livelli almeno ottimali come rientro sulle scene. Per dirla con quanto asserito da una fanzine musicale “The band has lost nothing in years since” (la band non ha perso nulla negli anni ad oggi) . Ai Grandaddy non si può chiedere nulla di più e di diverso. Loro sono questi. GRANDADDY = TRA ELETTRONICA ED AGRICOLTURA.

Last Place Book Cover Last Place
Grandaddy
Elettronica
2017