Diploma maturità classica – Laurea in Giurisprudenza in 3 sessioni e mezza – Pratica legale – Pallavolista di successo – Manager bancario e finanziario – Critico musicale dal 1977 – 6 mesi esperienza radio settore rock inglese ed americano – Studi continuativi di criminologia ed antropologia criminale – Lettore instancabile – Amante della letteratura noir e “gialla “ – Spietato con gli insignificanti. Fabio è venuto a mancare nel maggio del 2017. Ma noi abbiamo in archivio molte sue recensioni inedite che abbiamo deciso di pubblicare perché sono davvero parte della storia della critica musicale italiana

Qui siamo nelle lande ghiacciate. Parlare, nel 1974, di jazz nordico, significava essere presi per folli. Eppure il chitarrista norvegese Terje Rypdal ed il sassofonista, sempre norvegese, Jan Garbarek, nel tempo, si dimostrarono dei fuoriclasse assoluti, specie a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, poi le registrazioni andarono alquanto diradandosi. Chi consentiva loro di registrare era il patron dell’etichetta sopraffina ECM di Monaco di Baviera, Manfred Eicher, vero nume tutelare degli studi di registrazione ad Oslo e Stoccolma e proprietario dell’etichetta medesima (ancora vivente e molto attivo oggi). Rypdal registra il suo capolavoro il 7 e 8 agosto 1973 (grande anno) agli studi Arne Bendiksen di Oslo con altri quattro musicisti straordinari, due dei quali “maestri” assoluti dei loro strumenti. Sto parlando di Barre Phillips al contrabbasso e Jon Christensen alla batteria. Gli altri due sono Sveinung Hovensjo al basso elettrico e, soprattutto, il bravissimo Erik Niord Larsen all’oboe (incredibile) ed al corno inglese. Ne viene fuori una musica da punk nordico, dove si aggirano famelici orsi bianchi e le navi da pesca vanno immancabilmente ad incagliarsi tra i ghiacci spessissimi. La musica ti avvolge lenta, meditativa, cesellata, il fiato ti si spegne sul vetro, appannandolo. Parte dell’ispirazione viene a Rypdal dalle lunghe suite improvvisative di Miles Davis, che in quegli anni già pestava forte la musa elettrica.
I bordoni chitarristici di Terje sono delle autentiche sciabolate di elettricità riverberate ed amplificate dal tremendo silenzio che gravita sullo scenario sonoro. Esemplificativa al massimo di quanto sto affermando è “Icing” (diventando ghiacciata), brano che ha un respiro gelato che non può non colpire. Le contorsioni, spesso insistite, quasi strappando le corde al suo contrabbasso di Phillips si infrangono sul suono da landa sperduta sia della chitarra che del corno inglese e dell’oboe. E’ musica introspettiva, capolavoro di una sensibilità verso cui bisogna andare, senza aspettarla, per comprendere la ricchezza dei suoni, per quanto spartani siano assai spesso. E’ quell’alba col colore rosa di un sole che sorgerà sbiadito per il grande freddo, dove il freddo ti addormenta lentamente, ma già sai che non ti sveglierai vivo! Inizia con questi arpeggi contro tempo, col basso che ti ammolla qualche schiaffetto di fisicità. Pare il suono della filosofia danese di Soren Kierkegaard, una riflessione sull’inutilità degli sforzi umani. Stridii quasi di gabbiani gelati da parte della sei corde del leader. Un brano-capolavoro da ascoltare assolutamente. Stando assolutamente zitti.
“Bend it” ha la calma di un mostro di ghiaccio che viene a ghermirti e le stilettate chitarristiche di Terje sono affiancate dal pulsare instancabile del basso elettrico di Hovensio mentre, Phillips lavora di archetto sul suo contrabbasso, trasportandoci in un mondo di paura, seppur asettico e sterilizzato. Ci vuole un po’ di pazienza (specie oggi che si corre tutti come pazzi per non andare da nessuna parte) per apprezzare compiutamente questo pulsare della natura “nordica”. “Yearning” vede Rypdal operare all’acustica con l’oboe a contrappuntare un suono lento ed avvolgente, quasi macabro. “What comes after”, la title track, dura 10 minuti e 59 secondi, di suoni splendidi. E’ un jazz personalissimo, Hovensio al basso elettrico è un autentico fenomeno e Rypdal tesse senza soluzione di continuità. Ancora Phillips con l’archetto sul contrabbasso con effetto violoncello. Musica intricatissima e vivace nella sua glacialità. Ed è un autentico miracolo. “Sejours”, composta dal contrabbassista Barre Phillips, è una poesia purissima, dove qualcuno (forse Rypdal), non specificato nelle note del disco, suona l’organo con tonalità stratificate profondissime e Phillips dialoga al contrabbasso con l’archetto con il corno inglese e poi con l’oboe del fantastico Larsen. Capolavoro altissimo: si resta a bocca aperta. “Back of J.”, ancora di Phillips, si apre sul suono profondo del suo contrabbasso, mentre una chitarra spagnoleggiante gli fa da contraltare. Grandissimo l’arpeggio del chitarrista. Il jazz delle grandi distese bianche è qui. Merita di essere conosciuto.

What comes after Book Cover What comes after
Terje Rypdal
Jazz nordico
1974