Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

Il Club, crudo e potentissimo film del regista Pablo Larraìn, colpisce, interroga, non lascia certo indifferenti gli spettatori. Presentato alla Berlinale del 2015, Il Club è uno dei film “a tesi” se così si può definire, più lucido e meno giudicante che mi sia capitato di vedere. Tutto è raccontato eppure tutto resta da raccontare.
Una fotografia livida che dipinge un piccolo paese cileno, La Boca, luogo davvero alla fine del mondo, fa da cornice ad una altrettanto livida storia. Una casa isolata in cui vivono quattro preti che non possono più officiare, una suora (anche lei sospesa dal suo servizio) che fa da custode. Sono una comunità di persone che hanno commesso gravi peccati, dove la parola peccati vale certo per la Chiesa ma non per la legge degli uomini per cui, quanto da loro commesso sarebbe giudicato un vero e proprio crimine. E, sullo sfondo, un Cile il cui passato ha fatto da teatro per i crimini commessi da alcuni di questi uomini.
Rinchiusi in una sorta di prigionia certo ma più “soffice” di quanto sarebbe loro accaduto se la Chiesa non avesse deciso di isolarli in quel luogo per proteggere sé stessa più che per punire loro. Pedofilia, complicità con i crimini commessi dalla dittatura, sottrazione di minori per darli alle famiglie dei militari o comunque a famiglie benestanti ma impossibilitate ad avere figli.
Tutto scorre, in una atmosfera claustrofobica ma tutto sommato tranquilla, fatta di canti, preghiera e penitenza, fino ad un colpo di pistola (che non vi dirò sparato da chi e perché) e l’arrivo di un uomo, vittima di abusi sessuali da parte di un prete, che da sotto le finestre della casa/prigione, urlerà come un mantra gli orrori subiti. E nell’immobilità della vita di questa comunità entra la vita, il potere della chiesa e il sostanziale perpetuarsi della politica di “nascondere la polvere sotto il tappeto”. Tutto ciò incarnato da un giovane gesuita mandato lì per, nuovamente, insabbiare quanto accaduto e chiudere la casa stessa. Senza vera messa in discussione, senza reale comprensione delle contraddizioni di cui è fatta la vita degli uomini e, soprattutto, con la più totale assenza di redenzione. Un modo gattopardesco di far sì che “tutto cambi affinché nulla cambi”. E mettere in luce come tutto continui nella dinamica della più assoluta, fangosa complicità. Il gesuita, in una specie di mix tra confessioni e sedute di analisi, punta il dito contro i quattro ex sacerdoti mettendosi, come al solito, su un pulpito tanto più lontano dalla vera etica quanto più strumento di due cose sole: controllo e potere. Controllo e potere di una chiesa cattolica che, anche quando sembra ostentare il contrario, non affronta davvero i problemi, usando la croce non come apertura ma come memento di un sempre necessario quanto inutile sacrificio e altrettanto inutile penitenza.
Attorno, in mezzo e in ogni anfratto della storia, il Cile. Un paese in cui molto chiaro è stato il tenersi per mano della dittatura e della chiesa, del potere politico con quello ecclesiastico. Degli orrori ma con Dio sulla labbra e nei gesti esteriori. Un gioco al massacro storico e sociale che, in questo film, in questa casa isolata dal mondo, diventano il gioco al massacro tra gli abitanti stessi della casa. Un luogo della chiesa in cui ciò che manca è ciò che più dovrebbe esserci: la misericordia. Qui totalmente assente. Viva, forse, proprio nell’unico personaggio in cui più sarebbe giustificato non trovarla: quell’uomo impazzito per gli abusi subiti.
Una storia perfettamente accompagnata da una regia fatta di primi piani, controcampi, fotografia grigia quasi quanto il paesaggio, esterni/interni che paiono esattamente rispecchiare le anime dei protagonisti. Una desolazione che, e qui è l’aspetto più inquietante del film, riesce quasi ad avere elementi di fascino. Larraìn racconta e non giudica. Lascia che sia il racconto a muoversi quasi come una sceneggiatura in presa diretta.
Un film potente ed estremamente disturbante, anche per la sua lentezza che qui non è assolutamente un difetto ma qualcosa di voluto che ben evidenzia come, in fondo, vi sia in tutti i protagonisti, una sostanziale incapacità di cambiare. Incapacità che è della chiesa stessa almeno fino a quando, essa, non comprenderà davvero i limiti umani e, soprattutto, l’insopprimibile diritto/desiderio del corpo.
Da vedere assolutamente

Il Club Book Cover Il Club
Regia di Pablo Larraìn
Drammatico
2015