Nato a Viterbo il 25 ottobre 1991, laureato in  lettere (Università della Tuscia) e appassionato di musica (jazz, prog, elettronica).

E c’è ancora gente che concepisce l’arte come mondo scollegato dalla sfera politica. Andatelo a dire agli Henry Cow e a tutti coloro che hanno tessuto l’abito irripetibile degli anni Settanta. Le pure forme artistiche, dotate di bellezza universale, ovviamente non c’entrano niente con politica, discorsi sui massimi sistemi o religione. Ma caso strano, dalla fine degli anni Sessanta, è sempre stata l’intellighenzia sinistroide a promuovere festival e a farsi bandiera dell’ambiente artistico. C’è la lista infinita di chi ama l’India (Popol Vuh , Battiato, Incredible String Band..), chi fa concept sull’Antico Egitto (Agitation Free con “Malesch” e gli Ash Ra Tempel) e chi forma impegnati panorami di contestazione.
In questa ultima categoria si riscontrano senza dubbio gli evergreen della scena inglese di Canterbury. Oltre i famigerati Soft Machine del guru Robert Wyatt e i viaggi incantati dei Caravan, nel 1973 ci si scontra con un fenomeno denominato “Rock In Opposition”. In questa area si generano una moltitudine di influenze che vanno dal free jazz alle forme prog più vicine ai King Crimson e ai Van Der Graaf Generator. La politica agitata di quel periodo subentra a pennello nelle funamboliche menti di questi geni. Perfino in Italia arrivano a suonare, precisamente alla Festa di Unità Proletaria nel 1978 a Cervia.
Band come gli Henry Cow fanno gridare al miracolo già con i dischi d’esordio, così maturi e privi di imperfezioni. Le composizioni orchestrali dell’americano Frank Zappa, considerate uniche e divine fino a quel momento, ora trovano dei simpatici rivali in Inghilterra. La band è formata dal valoroso Fred Frith alla chitarra e al violino, Tim Hodgkinson alle tastiere, Geoff Leigh ai fiati, John Greaves al basso e Chris Cutler alle percussioni.
Nel 1973, tramite l’etichetta Virgin, annunciano l’ esordio con “Leg End”, lavoro contraddistinto dal gioco di parole del titolo e dalla famosa calza in copertina. Il cocktail proposto è un eccezionale jazz rock d’avanguardia, pieno di tempi dispari e di una buona dose di improvvisazione, senza egocentrismi o cacofonie rompicapo. Alla carenza di melodia si contrappongono, comunque, strutture omogenee che riescono a far tenere il filo del discorso all’ascoltatore. Sembra un’impresa ardua ma la sorprendente bellezza dei brani fa scorrere il flusso sonoro che è una meraviglia.
A testimonianza di ciò troviamo “Nirvana For Mice”, sublime biglietto da visita e archetipo della concezione. “Amygdala” è dedita maggiormente all’improvvisazione e ai sali e scendi vorticosi. La forma canzone, invece, viene esplicata dalle oscure linee vocali di “Nine Funerals Of The Citizen King”, bellissima filastrocca evocatrice di tempi arcani.
L’anno successivo ci imbattiamo nel tortuoso “Unrest”, avente definite solo le prime quattro composizioni, mentre le altre, lasciando scorrere i nastri, sono del tutto improvvisate.
Gli Henry Cow nel 1975 vedono succedere cose strane, ovvero la raggiunta consacrazione con il capolavoro “In Praise Of Learning” e la fusione con gli strampalati Slapp Happy . Si aggiunge, quindi, Dagmar Krause alla voce, un’atipica animatrice dei circoli femministi tedeschi. Con lei si realizza un disco decisamente più torvo, con meno esercizi strumentali jazz e maggiore verve e pathos lirico. Fanno piombare il Medioevo nella musica senza mezze misure, dove tutto è celato e carico di tetri scenari.
La sinistra filastrocca di “War” mostra serenamente l’aria del disco. Un assurdo non-sense tiene prigioniera la mente in un mondo aleatorio, privo di realtà. “Living In The Heart Of The Beast” è lo zenit irraggiungibile. Un’opera che equivale a “Moon In June” dei Soft Machine, ovvero quei miracoli che avvengono raramente nel panorama odierno dell’arte. Un lied mischiato a jam infernali, dove si alternano momenti di quiete, grazie ai fraseggi del piano di Moore, e scorribande impensabili di batteria e chitarra. Il suono morbido del basso si innesca perfettamente con il tono melodrammatico della Krause. Questo brano capolavoro manda in gloria definitivamente il declamare enfatico della cantante, vera bohemienne catapultata nei giorni moderni, e la stoffa tecnica e strumentale del resto del combo.
L’album potrebbe concludersi qua ma ci aspettano tre momenti: la Krause che flauta stregonerie in “Beautiful As The Moon Terrible As An Army” , i mantra elettronici cacofonici di “Morning Star” e la sarabanda di “The Long March”, concerto rumoristico di violino, piatti e altre meraviglie. Il grande passo è stato compiuto, il grande regalo per l’umanità è stato dato.
Nel 1978 ci continuano a deliziare con “Industry” di “Western Culture”, concludendo così la storia degli Henry Cow, band alla quale non è stato ancora dato un aggettivo per descriverla, proprio perché non esistente nel lessico delle lingue. Bisogna solo far godere le orecchie e la mente.

In praise of learning Book Cover In praise of learning
Henry Cow
Avant Prog Inglese
1975