Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
Questo film di Roy Anderson, Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2014, è semplicemente bellissimo. Surreale, desolato, malinconico e umoristico nello stesso tempo, ci regala qualcosa di davvero prezioso. Un cinema fatto di, apparentemente, poca tecnica registica e invece dalla tecnica registica assolutamente raffinata, toccante e, per certi aspetti, fulminante. Si tratta di un ultimo episodio appartenente ad una trilogia che si proponeva (come da esergo iniziale) di riflettere “sull’essere un essere umano”. Un film che, già dal geniale titolo, ci fa entrare in pieno nella sostanziale tragicità ma anche ironia dell’esistenza umana. Con tutti i suoi paradossi, la sua fatica, a volte desolante, ma sempre con una buona dose di umorismo (per chi ha la fortuna di vederlo) che seppur nerissimo aiuta ancor più a riflettere appunto sull’esistenza.
Un film fatto di immagini a cinepresa fissa, quasi fotogrammi o, meglio ancora, dipinti. Non a caso molta critica ha, giustamente, parlato di immagini che sembrano uscire direttamente da alcuni quadri di Hopper. Tre brevissimi prologhi che affrontano, ex abrupto, la sempiterna questione umanissima della morte. Se sembra paradossale iniziare un film che “riflette sull’esistenza” proprio partendo dalla sua conclusione, allora vuol dire che la pellicola sta facendo esattamente il suo lavoro, che è anche quello di spiazzare. Tre episodi che colpiscono con forza proprio strappando un amaro sorriso là dove si sarebbe portati a credere che da sorridere non vi sia nulla…e invece. Così assistiamo alla morte di un uomo colpito da infarto mentre stappa una bottiglia di vino con la moglie che, nella vicina cucina, canta senza accorgersi di nulla (si muore sempre soli); poi veniamo condotti in una camera di ospedale in cui tre figli, al capezzale di una madre morente, si litigano una valigetta di gioielli; per arrivare in un traghetto con un passeggero morto che però aveva già pagato la consumazione, cosa che induce una dipendente del bar di bordo a chiedersi chi, ora, mangerà quel cibo già pagato (con l’uomo esanime ancora davanti a lei).
Crudeltà? Cinismo? O semplicemente “essere degli esseri umani” con tutte le contraddizioni e umanissime debolezze che spesso altro non sono che l’altra faccia della paura e dell’incapacità di darsi risposte. Tutte cose che, ci racconta il regista, ci conducono a riflettere appunto sul sottile equilibrio tra tragicità e banalità dell’esistenza. E su cosa accade quando vengono a mancare empatia e compassione.
A fare da filo conduttore (almeno per il loro ricomparire in diverse scene) due incredibili e stranianti personaggi, due tristissimi commessi viaggiatori che cercano di campare vendendo oggetti che dovrebbero far ridere ma che non fanno ridere nessuno, “combattendo” tra negozianti che non ne vogliono sapere nulla o che non pagano quanto dovuto. E la loro esistenza si svolge tra strade e un tristissimo alloggio, anonimo, freddo con le classiche malinconiche luci al neon e un custode che sembra trovare un senso alla propria vita solo facendo applicare le rigide (e assolutamente prive di senso) regole della casa.
Casa in cui, con la stessa fissità di camera, troviamo una surreale atmosfera nerissima eppure umoristica, uguale a quella della taverna di Lotte la Zoppa, che vende grappa ai suoi avventori per pochi spicci o in cambio di un bacio a suon di musica. E poi un vecchio marinaio che non riesce a trovare la persona con cui dovrebbe avere un appuntamento e forse neanche il luogo dell’appuntamento. E poi un deformante salto temporale in cui in un bar entra niente meno che re Carlo XII, prima temerario e marciante verso la vittoria, poi, in senso di marcia inverso, lacero e sconfitto.
Davvero un film in cui, anche se non sembra agli sguardi più disattenti e superficiali, è uno distillato di umorismo a fare da cornice al tutto. Umorismo unito ad un apparente “nonsense” che poi, se ci pensiamo bene, è lo stesso “nonsense” che fa da controcanto alla vita stessa. “Nonsense” che insieme ad un tipico surrealismo nordico ci racconta come l’esistenza sia davvero qualcosa su cui, sì riflettere, ma con l’indulgenza che deve arrivare dal comprenderne il disorientamento e la sostanziale confusione.
E così il piccione ci guarda con quei suoi occhi che sembrano lontani e inespressivi. Forse gli occhi giusti per guardare noi esseri umani così incapaci, così vigliacchi a volte, ma così inesorabilmente vivi e tutti sulla stessa barca. Da vedere assolutamente per riflettere, sorprendersi, magari piangere ma anche ridere. Credetemi.

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza Book Cover Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza
Roy Anderson
2014